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Chiarissimo

Uno spazio aperto al confronto delle idee.

domenica 3 marzo 2019

Salvatore di Ballarò


                                                    SALVATORE DI BALLARO'

Era cresciuto in una casa di Ballarò. Un quartiere di Palermo, dei palermitani. Una cosa che non puoi spiegare ai ragazzi di oggi. I “multiculturali” che hanno accettato un pezzo d'Africa non sempre corretto, quanto affamato, e pronto a tutto pur di sopravvivere un giorno in più in una triste vita, forse senza leoni della savana o i mercenari del Sahara, ma in mano alle iene dei borderline travestiti da picciotti. I multiculturali, gli accollativi, i rappers di un nuovo stile di vita che, poi, usano questa carne persa solo per fornirsi di fumo e droghe varie. Salvatore ormai cinquantenne non era entrato all'Ucciardone per eccesso di avidità ma per il suo senso dell'Onore. Non aveva rapinato, non aveva rubato. Riteneva d'avere subito uno sgarro e aveva emesso una sentenza. Poi l'aveva applicata. Trent'anni possono sembrare lunghissimi ma, se la scuola familiare è forte e ti tiene aggregato con pacchi mensili e notizie settimanali che arrivano nei modi più impensati, possono scorrere in modo ordinato. La legge 354 del '75, poi, lo aveva aiutato, negli ultimi anni, a visitare l'anziana madre, che era il suo idolo, e il taciturno padre. Per poche ore, è vero, ma che ti fai bastare pensando a quando non avevi nemmeno quelle. Comunque, alla fine, il secondino pronunciò il suo nome ad alta voce e il detenuto divenne uomo libero accompagnato al portone dove sapeva che, stavolta, non era previsto il rientro.
Come una persona che esce da un ascensore dopo avere fatto 115 piani, lui si trovò barcollante sul marciapiede che attornia le mura dell'Ucciardone. Tremava, e non di paura, aveva l'impressione che la terra tremasse, il gesto automatico di accendere una sigaretta non mise le cose a posto. Rimase intontito per un po. Dicono che la libertà, quando te la restituiscono, fa questo effetto. La valigia che gli consegnarono all'uscita gli parve fuori luogo e il cassonetto dei rifiuti gli sembrò un posto consono dove gettarla. E con essa, il suo passato. Aveva chiesto all'avvocato di non avvisare la famiglia. Contava nella gioia, reciproca, della sorpresa quando, suonato il campanello, sua madre avesse chiesto – chi è? Dalla casa circondariale a Ballarò bastano quindici minuti.
E' da Ballarò al carcere che, talvolta, basta un attimo.
Suonò al campanello ma non riconobbe la voce che domandava chi fosse. Allora chiese lui di chi fosse quella voce. Ahmed, fu la risposta. Salì velocemente per la scala e appena entrato si trovò un letto in soggiorno, addossato al muro. Sua madre, per niente sorpresa, lo aggiornò sull'ictus che aveva colpito suo padre che, adesso, riconosceva in quel corpo dimesso che stava sotto una leggera copertina. Li baciò entrambi e si fece bastare la giustificazione della madre sulla presenza di Ahmed: accudiva suo padre. Suo fratello era emigrato in Germania e, ormai, non spediva più nemmeno l'aiuto economico dei primi tempi. Le sorelle sapeva già essere inguaiate in matrimoni sbagliati con balordi perdigiorno. Ma a questo avrebbe pensato dopo. Si informò sommariamente su di cosa avesse avuto bisogno sua madre e scese per strada.
Pensava di andare a trovare vecchi amici e conoscenti. Il bar era sempre li, svoltato l'angolo. Ma entrato che fu, si accorse che era un ritrovo di magrebini e ragazzi di colore. Alcuni alle prese con un paio di birre e altri impegnati con le slot. Sei, addossate a una parete che ne poteva ospitare quattro e , sui trespoli, sei automi impegnati a sfidarle. Il barista non lo riconobbe ma vide alle sue spalle, incorniciata, la foto del vecchio barista e se ne informò. Il banconista mostrò rispetto e tristezza nel dire che il padre era venuto a mancare otto anni prima. Già il padre...quindi lui era Settimo, il figlio. Ma non volle farsi riconoscere. Non adesso, pensò.
Aveva delle priorità. Una scaletta di cose da fare con un urgenza decrescente.
Si spostò a Porta Nuova dove doveva consegnare un paio di pizzini affidatigli da amici in cella.
Con l'occasione riassaporò un panino con panelle e crocchè. Che ai suoi tempi erano ...cazzilli.
L'amico che ricevette i pizzini lo informò che era sua disposizione un negozietto di abbigliamento e lo convinse ad approfittarne subito, viste le condizioni del suo abbigliamento. La cosa non lo offese e la giudicò essere plausibile. Il commerciante lo accolse con modi affettati e rispettosi e propose i suoi capi assicurando che erano già stati pagati da un amico comune. Lui sapeva che nessun denaro sarebbe arrivato al commerciante ma finse di esserne onorato. Poi si spostò a Brancaccio dove sapeva che un suo amico aveva aperto un officina. Amicizia nata nella sezione dove avevano passato quattro anni insieme. Non poté esimersi dall'accettare il caffè di benvenuto, quattrocento euro in “prestito” e un ciclomotore che l'amico insistette a donargli perché -”non è elegante che ti sposti in autobus”. Della patente necessaria per il ciclomotore non era informato ma quel maledetto casco proprio non l'accettava. Però il portapacchi, dietro, fu provvidenziale per caricare le borse della spesa. Chiuse così la prima giornata di libertà e decise che per qualche giorno sarebbe stato comodo a casa di sua madre ma, quanto prima, necessitava della sua libertà: una stanza, cucina e bagno. Di più non gli serviva, pensò. O non ne era abituato. A sera, finita la cena, si ricordò della prima cosa che si era ripromesso di fare appena uscito di galera. Quindi scese, si informò dove poterla fare e risolse anche quella necessità. Senza alcuna concessione alla poesia e ai fronzoli che l'avevano contornata durante le sue lunghe notti in cella.
Passò un ora al capezzale del letto di suo padre e dette la notte libera a Ahmed. Tentò in tutti i modi di intavolare una conversazione col padre ma fu tutto inutile: i suoi tentativi di risposta venivano completati dalla madre che pensava che Salvatore non sarebbe riuscito a capire. 

Troppo provata e dalla vita per comprendere che un uomo cerca solo il contatto con suo padre e non sono importanti le parole. Ma le voleva troppo bene e non le disse nulla.

La seconda giornata la iniziò tessendo le stradine di Ballarò, a cercare vecchi volti amici e vecchi sorrisi ancora presenti sul suo cuore ma scomparsi dai luoghi ove nacquero. Una cosa lo sconvolse: l'enorme numero di extracomunitari , scuri, neri, piccoli, avvolti in tuniche lunghe fino ai piedi, in veli che nascondevano sguardi femminili, in canotte improbabili su mutandoni sbracati calati sotto l'elastico delle mutande, sopra ciclomotori senza targa ne faro. Sguardi pieni di sfida in mezze tacche che, in frotte, scorrazzavano per il quartiere e un infinità di bettole che spuntavano da ogni dove. L'unica presenza amica era, per lui, il volto dei commercianti e lo sguardo attento e preoccupato di decine di studenti universitari che si dipanavano per le stradine. Habitat sbagliato e fauna improbabile pensò. Durante la detenzione veniva, insieme agli altri, costantemente aggiornato sulla gerarchia dei picciotti del quartiere e di chi li governava. Quindi decise di recarsi da Filippo che sapeva essere, ora, “u zù Filippu”. Fu accolto con simpatia e rispetto dentro la piccola salumeria dove una sedia di plastica, davanti al negozio, simulava il piccolo trono del referente di quartiere che vi stava assiso con noncurante, apparente, apatia per ore. L'incontro si svolse nel retro bottega trasformato in un improvvisato laboratorio per cucinare babbaluci, carciofi e patate bollite. Due sedie, un tavolo con una caraffa di vino bianco e due bicchieri l'essenziale coreografia. Alla parete un immagine di Santa Rita. Filippo conosceva il reato che aveva portato Salvatore in galera e, per questo, gli mostrava rispetto. Nella dinamica dei rapporti che reggono quelle amicizie, un omicidio senza chiamate di correità e in risposta a uno sgarbo familiare subito, pongono l'individuo con una sorta di mostrina a tre stellette sulle spalle che mostrano subito il grado di affidabilità. Salvatore lo capì subito quando, ristretto in cella, appena ammesso a vita comune, fu oggetto del “ processino” che i detenuti imbastiscono per ogni nuovo arrivato che culmina con una sentenza che sovrasta quella che lo Stato darà successivamente nell'Aula del Tribunale. E la sua sentenza fu che si era comportato bene. Con dignità e onore.
Ora uscito dal carcere quella sentenza costituiva la sua carta di credito in una società liquida, sommersa e invisibile ma che governa la pancia di Palermo. E non solo.
Chiese una spiegazione a Filippo dell'invasione del quartiere da parte di quella enorme massa di stranieri, ma senza razzismo solo per gelosia geografica e senso di appartenenza. La risposta fu priva di diplomazia e recava una sofferenza ma indicava una possibilità: -”Servono a noi, alla città, al Sindaco, a tutti. Stanno al loro posto, pagano l'affitto e anche l'aria che respirano e fanno quello che i picciuttieddi non vogliono più fare”. Un male necessario, insomma.
Si fece bastare la risposta, assicurò la sua lealtà e mise al corrente Filippo che non aveva bisogno di nulla. Per il momento.
Ma Filippo gli spiegò che erano altri ad avere bisogno di lui e che passato un breve periodo di vacanza lo avrebbero cercato.

Un sì era impossibile ma un no era improponibile quindi, prese tempo.

Le lunghe giornate e, in special modo le lunghe nottate, passate in cella lo avevano abituato a riflettere con pacatezza e a porre le infinite variabili di risposta a ogni singolo fatto che gli si presentava. Una frase dentro un breve discorso, un gesto, un ammiccamento conteneva sempre un messaggio chiaro, cristallino, sotto il velo opaco della apparente innocuità.
Poteva indicare una facoltà, una risorsa, una eventualità e, ad ognuna, aveva imparato, occorreva dare seguito senza fretta e senza irruenza. Anzi più l'azione era meditata e più risultava efficace.
E' una scuola di vita, di psicologia quotidiana che forgia, quando trova menti aperte e duttili, grandi pensatori e efficaci uomini d'azione quella della vita ristretta in ambienti detentivi.
Qualche coltellata, magari di striscio, l'aveva presa nei primi anni. Ma aveva imparato che anche la violenza è pesata dentro una vita organizzata in rigide regole carcerarie. E non lo preoccupavano quelle dell'Istituto che cambiavano a ogni sostituzione di Direttore o avvicendamento di secondini, erano quelle immutabili del codice di comportamento dei detenuti che, da secoli, regolavano sfide, tenzoni e piccoli accomodamenti che nascevano, magari, fuori dall'Istituto e avevano ripercussioni all'interno quelle che aveva imparato a rispettare.
Questa qualità di galleggiamento e di accomodamento lo avevano fatto emergere, dopo qualche anno, come un paciere efficace. Sapeva di dovere essere duro talvolta e di non potersi fidare di alcuno nella esecuzione della misura da approntare per smussare spigoli e ricomporre fratture tra i suoi compagni di sventura. E se, qualche volta occorreva l'aiuto di qualcuno , era sempre lui a condurre l'azione. Per questo, quando si avvicinava ai nuovi arrivati, tutti sapevano che doveva succedere qualcosa. Se la aspettavano. Col tempo bastò solo un suo consiglio a dirimere competizioni che potevano trasformarsi in disdicevoli esiti.
Aveva visto entrare decine di uomini che poi, sui giornali, venivano additati come referenti di quartieri e “mandamenti” e aveva, quindi, accumulato un discreto credito che, ora, poteva dimostrarsi come una grande forza, una volta fuori e lui ne era perfettamente a conoscenza.
La prima avvisaglia si presentò una mattina quando una vedova gli rappresentò una situazione che la vedeva incastrata in un meccanismo crudele: il banchetto delle sigarette che il suo marito defunto teneva in un cortile del quartiere era stato piano, piano taglieggiato da un malandrino che suo marito teneva come aiutante. Gaspare, che chiamavano Asparino, pretendeva di rifornire lui le sigarette del banchetto e di fissarne lui il prezzo di acquisto. Questo lasciava un troppo piccolo margine alla vedova per continuare il suo esile commercio. E attraverso questo taglieggiamento Asparino pensava di subentrare nella gestione del banchetto.
Salvatore, informatosi su chi rifornisse Asparino, chiese la cortesia di dargli le sigarette solo attraverso lui dopo averlo lasciato tre giorni a secco.
Nessuno provò a negare la cortesia e appena Asparino si presentò per prendere da lui le sigarette gli rispose che, adesso, avrebbe dovuto pagarle il dieci per cento in più. Nell'immediato Asparino accettò e pagò le stecche al prezzo imposto ma iniziò subito la litania delle lamentele e delle infamità sul conto di Salvatore per il quartiere in cerca di sponsor. Grande fu la sua meraviglia nell'apprendere da tutti i “cristiani” interpellati che il prezzo per lui era quello ma che non era obbligato a continuare quel commercio a quelle condizioni. Qualcuno si occupò di spiegargli che era una misura temporanea dovuta al suo cattivo comportamento con la vedova. Lui capì l'antifona e subdorò una passata di legnate se avesse insistito quindi tornò da Salvatore per assicurare di avere capito e, per rimedio, promise che da quel giorno avrebbe preso le sigarette da portare alla vedova senza pretendere alcun compenso e di cambiare commercio.
La signora tentò in mille modi di ringraziare Salvatore, che assicurò di non aver fatto nulla, ma mise in moto il tam tam dell'elogio al comportamento di Salvatore per i vicoli di Ballarò e non solo.
Un secondo caso si presentò nei giorni appresso: un costruttore aveva venduto un appartamento a una coppia di modesti giovani i quali, nell'atto preliminare dal notaio, avevano ceduto il piccolo appartamento dei genitori di lui come acconto/caparra e si erano impegnati con un numero infinito di cambiali in attesa dell'accollo del mutuo del costruttore che assicurava di consegnare il nuovo alloggio sei mesi dopo. Il risultato fu che la coppia aveva perso il possesso del piccolo appartamento e da due anni stava in attesa del nuovo nella casa dei genitori di lei. Ventiquattro cambiali onorate, con interessi “allegri”, e il piccolo appartamento non erano bastati ad avere le chiavi della casa che il costruttore non aveva mai iniziato a costruire se si esclude lo sbancamento e la gettata delle fondamenta in un terreno agricolo di cui lui assicurava avere il compromesso ma che risultò essere una delle tante frottole raccontate dal costruttore.
Salvatore si informò su chi avesse fatto i lavori di sbancamento e la fornitura del ferro e del cemento e trovò altri gabbati in lista di attesa di pagamenti che venivano sempre rinviati. Quindi mise “a ruolo la causa” tra i suoi conoscenti e si assicurò che non vi fosse il patrocinio di alcuno sul costruttore. Poi lo andò a trovare nel suo ufficio.
Nessuno era presente all'incontro quindi nessuno sa cosa si dissero.
Il fatto noto è che il costruttore fissò un incontro con la giovane coppia dal notaio, restituì il doppio valore del piccolo appartamento e delle ventiquattro cambiali insieme a tutte le altre che aveva in possesso. Poi, in un incontro successivo con Salvatore, lo pregò di accettare un piccolo appartamento in corso Tukory per usarlo per tutto il tempo che gli fosse occorso assicurando che lui poteva farne tranquillamente a meno.
Salvatore aveva così risolto il problema della casa e rinforzato la sua autorevolezza nel quartiere.
Ma se il sole affaccia per tutti, a Palermo, c'è sempre qualcuno che si lamenta dell'ombra eccessiva: Filippo, u zu Filippu, non sembrava affatto gradire quelle intromissioni nel tranquillo svolgersi delle sue giornate a Ballarò. 

Il suo Ballarò.

Prima affrontò Salvatore a quattrocchi e, preso atto, della vaghezza delle sue risposte pensò di mettere anche lui “la causa a ruolo”. Alla prima riunione che si presentò cercò di non mancare ma grande fu la sua delusione quando, la sera prima, un paio di amici lo andarono a trovare consigliandolo di evitare l'incontro l'indomani.
Non sbraitò, come il suo temperamento gli suggeriva, ma meditò una reazione che lo ponesse in nuova luce rispetto a chi sembrava abbandonarlo.
Si raccontano varie versioni su quello che accadde, una sosteneva che fosse emigrato dal fratello in Sudafrica, un altra lo vedeva gestire una pizzeria in Germania ma quello che è sicuro e che sulla sedia di plastica, davanti il negozietto di alimentari, da quel giorno si vide un nuovo soggetto che, rispondeva sistematicamente alle richieste di chi si presentava:-” Ti farò sapere fammi consultare con lo zio Salvatore, prima”.
Adesso era il tempo di sistemare le cose con i cognati.
Usò una domenica, una bella domenica di sole, per organizzare un pranzo in famiglia. Tutti al completo: papà assiso su sedia a rotelle a capotavola con accanto la mamma fresca di parrucchiere e tutto attorno sorelle cognati e nipoti. Fu una bella mangiata di pesce. Ma i cognati ricordano più le lische di quel pesce che il resto. Avevano sentito in giro per il quartiere il crescere del consenso per il cognato e, quando potevano, se ne avvantaggiavano per rimediare credito e favori. Che Salvatore, puntualmente, ripianava con i creditori che si presentavano a lui. Finita la mangiata li pregò, scusandosi con il padre, di scendere con lui a prendere il caffè. Prima affacciò sul balcone a fumare una sigaretta e, quando finita, lanciò il mozzicone sulla strada. A quel segnale un auto seguita da una moto si presentò al portone. Lui, sceso con i cognati, li invitò a salirvi. Le legnate iniziarono subito: seduti dietro prendevano schiaffi davanti da Salvatore e dietro da un armadio vestito da cristiano. Quando arrivarono a Piano dell'Occhio, su per la montagna che da sud sovrasta Palermo, in una vasta pianura piena di pietre e vacche raggrinzite erano così malridotti che Salvatore non ebbe difficoltà a spiegare cosa avrebbero fatto dall'indomani.Entrambi prima riottosi ma poi, forse all'apparire di due badili presi dal cofano dell'auto, si mostrarono comprensivi della scelta di andare a lavorare nella pizzeria del cognato, in Germania, assicurando che avevano capito la situazione. Da allora il fratello di Salvatore manda gli stipendi alle sorelle e ogni sei mesi i rispettivi mariti che hanno deciso di portare con loro le famiglie. La madre, tempo dopo, disse a Salvatore che i generi erano brave persone e che andavano presi per il giusto verso.
Salvatore convenne.
I lunghi anni passati nelle celle di mezza Italia lo avevano abituato a vivere da solo anche in situazioni di promiscuità estrema. Aveva imparato a sorridere con apparente condivisione delle battute e dei comportamenti più stupidi e scurrili dei compagni di cella o di sezione. Sapeva che era il prezzo da pagare per una integrazione con soggetti non sempre avvezzi alla civile convivenza e sempre alla ricerca di una ostentata prepotenza.
Ma la sensibilità conquistata con anni di riflessioni e osservazione dei comportamenti lo aveva abituato a scorgere, negli sguardi di alcuni, i suoi stessi patemi e le sue stesse sofferenze. Il tempo, poi, lo aveva posto nelle condizioni di organizzare, con una finta casualità, la composizione della cella. Che vedeva sempre un paio di F.P.M. ( Fine Pena Mai – ergastolo ) e il resto di detenuti dei quali avevano “buttato le chiavi” come si dice di quelli con lunghe pene detentive. Aveva, in questo modo, disattivato arrabbiature e rivalità con soggetti che dovevano scontare pochi anni e che erano di turbativa a chi doveva abituarsi all'idea di una vita passata in restrizione. Questo, poi, dava autorevolezza alla cella che vedeva individui pronti anche all'omicidio perché alla fine non è che potessero comminare altri anni di carcere nel caso fossero stati scoperti e consigliava cautela a chi avesse voluto attaccare uno di loro. Quindi per l'affetto, che veniva visto come debolezza, non c'era alcuno spazio all'interno della struttura. Semmai una sua sublimazione carnale che portava soggetti più deboli a trovare riparo e protezione in quanti cedevano all'idea del possesso di un corpo.
Ora, libero e forte, a parte l'affetto filiale, Salvatore si trovava monco di un espressione necessaria alla vita quotidiana. Non immaginava assolutamente la possibilità di amare qualcuno. Semplicemente non dava un valore alla parola “affetto” se non rivolta ai genitori. Che , anche qui, aveva una valenza di rispetto verso chi lo aveva messo al mondo. Poi c'era il Rispetto verso chi, ai suoi occhi, si imponeva con un comportamento o una decisione dura ma giusta e l'ammirazione per chi sapeva dirigere e gestire un gruppo di persone con onestà e correttezza. E durezza quando necessario.
In questo tessuto caratteriale ebbe notevoli difficoltà a inserirsi Rosy, la titolare del panificio dove ogni mattina Salvatore comprava il pane fresco per il pranzo e, la sera, quello per la cena. Era un balletto di ritardi alla cassa che vedeva Rosy ritardare lo scontrino a lui per simulati conteggi al cliente precedente che gli permettevano un minuto in più di presenza al cospetto di quel duro e freddo uomo di cui, attraverso i panettieri, era riuscita a conoscere tantissime cose. Ma otteneva lo stesso interesse di una farfalla che svolazza attorno un orango alle prese con le sue liane. Battutine, convenevoli e piccole profferte verbali sembravano non raggiungere minimamente l'attenzione di Salvatore. Non poteva sapere che lui, attento a ogni sfumatura di chiunque intercettasse il suo cammino, aveva preso informazioni su Rosy e la famiglia. E la prova che non avesse cambiato fornaio, presumeva, che fosse un messaggio di attenzione sufficiente per dirle che accettava le sue attenzioni. Non aveva nessuna vergogna del suo passato ma non riusciva a condividerne alcun aspetto con chicchessia. Questa, e solo questa, era la molla della sua scontrosità. Un giorno che la fila alla cassa era più lunga del solito si trovò a scrutarla per qualche minuto in più e quello che vedeva lo scopriva, stranamente, contento. Sarà stato il nuovo taglio corto e sbarazzino o il fatto che non avesse trucco o monili appariscenti ma si trovò investito da un sottile alito di simpatia e, giunto alla cassa, le chiese a bruciapelo se avesse mai mangiato il pesce a Sferracavallo.
Finì di pronunciare la frase e si rese conto della stupidaggine appena detta a una donna di 39 anni vedova da 12, ma ormai s'era lanciato...
Rosy avvampò e rispose che era curiosa di conoscere il motivo della domanda. Salvatore si sarebbe rosicato i gomiti per la sua goffaggine ma, superatala, rispose che era un suo vecchio sogno passare due ore in riva al mare davanti una frittura di pesce. Quindi l'appuntamento fu fissato per la domenica successiva alle 12 sotto casa di Rosy.
Aveva un appuntamento alla Vucciria con un paio di amici dei suoi amici che chiedevano di vederlo. Passò a prendere Pinuzzo che era la sua ombra ormai da mesi e, essendo alto più di due metri, di ombra ne faceva assai. Passarono per lo Zen dove un amico aveva chiesto di incontrarlo e sentite le lamentele di quest'ultimo su un giovane di Ballarò che s'era mostrato sgarbato e sprezzante in un battibecco verbale, assicurò la sua mediazione. Pinuzzo prese nota mentalmente. Poi si recarono alla Vucciria in una piccola osteria che aveva due tavoli in un angolo sempre disponibili per lui e altri che li usavano per incontri riservati. Come al solito si sedette, spalle all'angolo, in uno dei due tavoli con Pinuzzo alla sua destra e con il corridoio libero. Alla sua sinistra, al secondo tavolo, v'erano già le persone da incontrare. Come al solito fece un cenno di saluto con gli occhi molto discreto e si guardò intorno aspettando che l'oste venisse a comunicargli che gli altri ospiti dei vari tavoli erano innocui e tutti conosciuti. Aveva da tempo imposto a tutti i suoi amici il bacio di saluto solo se al riparo da chiunque e tutti convennero che era più igienico viste le cimici e le telecamere che avevano invaso Palermo da anni. Come al solito prese una pasta alla grassa e mezzo vino bianco e, tra un boccone e l'altro, con indifferenza e sottovoce conversava con i commensali dell'altro tavolo. Nessuno alla fine del pranzo avrebbe detto che c'era stato un incontro da due capo-mandamento nella mezz'ora precedente in quella osteria. Ma si era chiuso un accordo per un carico di sigarette proveniente dall'Albania che sarebbe giunto con la prossima luna mancante via calabrie. S'era convenuto di quantificare le quote di impegno economico per le famiglie che partecipavano al carico, le quote di guadagno e l'incarico di smistamento. S'era poi convenuta la risposta da dare a un paio di cugini che da settimane avevano sotto mira le farmacie dei rispettivi mandamenti e continuavano a taglieggiarle con continue rapine flash. E in ultimo aveva saputo che la domenica successiva lui e altri quattro amici erano invitati da un esponente del Provinciale a pranzo a Caccamo. Poi s'erano alzati ed erano usciti con dieci minuti di sfalsamento.
Caccamo era importante ma Sferracavallo era un impegno preso.
Alle 16.00 aveva un appuntamento con un consigliere comunale che gli era stato fissato da un suo caro amico e, giunto sotto la segreteria del politico, disse a Pinuzzo di aspettarlo in sala mentre lui spendeva due parole con il Consigliere. Questi lo aveva ricevuto in un salone organizzato ad ufficio con tavolo sei posti in mogano e salottino due poltrone e divano in fondo al salone. Un enorme libreria colma di faldoni attraversava tutta una parete interrotta solo da una grande finestra velata da una tenda.
C'erano sei persone nei vari punti del salone e il Consigliere lo invitò a sedersi per ascoltarlo. Lui tese la mano con cortesia, si presentò e ricordò il nome dell'amico comune che lo aveva introdotto poi, senza sedersi, lo invitò a scendere in strada per prendere un caffè al bar. Il modo in cui lo disse, quello in cui, per tutto il tempo, lo fissò e la perentorietà dell'invito mise in imbarazzo il politico che tergiversò. Salvatore lo ascoltò con bonomia e, dopo, ripetette l'invito. Questa volta il politico non ebbe forza di controbattere e, date rapide istruzioni alle persone del suo entourage, si avviò alla porta con Salvatore. Pinuzzo uscì poco dopo a debita distanza.
In ascensore Salvatore disse poche parole:- “Onorevole sono qui a ricordarLe il suo impegno preso in campagna elettorale. L'amico che Le avevo segnalato è stato all'Acquedotto come concordato ma il Presidente gli ha risposto di presentare un curriculum e aspettare comunicazioni. Ora, passati sei mesi, la comunicazione gliela faccio io: lunedì l'amico sarà chiamato dall'ufficio del personale o Lei presenterà, spontaneamente, le dimissioni.”
Il Consigliere disse che il Sindaco era uno stronzo, che l'assessore era un stronzo e che lui aveva fatto tutto il possibile. Ma Salvatore ribatté che non era importante, a questo punto, l'assunzione dell'amico segnalato quanto la possibilità che lui passasse per stronzo e che questa cosa non era contemplata tra le possibili.
Poi lo consigliò, vista la sua incapacità di mantenere la parola data, di preparare le sue dimissioni. Il tutto si svolse in pochissimi minuti tanto, che giunti al piano terra, Salvatore spinse il bottone del quinto piano per risalire. Il gelo calò nella cabina e un tentativo di replica del politico fu fermato da un dito poggiato delicatamente sulle sue labbra seguito da un invito al silenzio. Poi le porte dell'ascensore si aprirono e il politico ne uscì.
Fuori dal portone, a piano terra, lo aspettava Pinuzzo.
La serata proseguì con un giro discreto e articolato per le attività della borgata. Dove lasciava un saluto e dove si fermava per consegnare una busta con il necessario per la spesa settimanale a un ragazzo con l'incarico di consegnarlo alla rispettiva madre. Ovunque passasse c'era armonia e anche le disgrazie più amare trovavano lenimento. Era il suo modo di interpretare il ruolo che le persone, memori di “u zu Fulippu” e delle sue angherie, non potevano non apprezzare. Si fece l'ora del pane caldo. Palermo è una città povera ma in ogni via si troverà sempre, a tutte le ore, un infornata di pane fresco. Contrito dovette dire a Rosy che l'invito si trasformava in un gelato pomeridiano per 17.00 ma lei non gli dette tempo e modo di giustificarsi: accettò felice che comunque l'invito c'era. L'indomani mattina trovò una cassetta di liquori e dolciumi vari al bar dove, ogni mattina, prendeva il suo terzo caffè della giornata. C'era un biglietto dentro una bustina chiusa, lo aprì. Diceva:-” Zu Sarvaturi non potrò mai sdebitarmi del Suo interessamento. Mi ha chiamato ieri sera, alle 18.30, un tizio degli uffici dell'Acquedotto e mi ha indicato i documenti che devo portare fra tre giorni per l'assunzione. Sempre a Sua disposizione. Per qualunque cosa. Firmato F.G”

Un altra giornata iniziava e con essa la prova che la politica non è distratta: va seguita con attenzione.

Tre anni erano passati dall'ultima volta che Salvatore aveva avuto contatti con la giustizia. L'ultimo contatto era stato con il secondino che lo aveva accompagnato al portone di Ucciardone. Molte cose erano successe: Rosy, adesso, era sua moglie. Con orgoglio la sera del matrimonio gli disse che era felice di essere la signora Benigno. Salvatore era fermamente collocato in una società sotterranea, parallela a quella che viveva, alla luce del sole, con le sue speranze e i suoi affanni quotidiani. Aveva una casa decorosa e una vita intensa. Con grande disappunto, ma con freddo distacco, stava seduto di fronte al giudice che lo aveva convocato.
- Lei è il sig. Salvatore Benigno di anni 53, residente in corso Tukory a Palermo?

  • Se rispondo di no, che fa mi lascia andare? Rispose con ironia.
  • Sig. Benigno guardi che non è nella posizione di scherzare se è qui, davanti a me, comprende che è per motivi seri, vero? Molto seri.
  • Vede sig. giudice la mia vita è stata costellata da giorni seri. Non ricordo un giorno buffo o vissuto con leggerezza. Ma posso sapere di cosa sono imputato?
  • Di niente. Ancora. Deve solo rispondere a qualche domanda.
  • Sono a Sua disposizione. Replicò.
  • Bene deve solo dirmi come ha fatto un ergastolano, appena uscito di galera, senza titoli e senza capitale a trovarsi, in tre anni, padrone di una impresa di costruzioni, di una pizzeria, di un officina con assistenza alla casa madre e di innumerevoli interessi.
  • Vede signor giudice partiamo male. Quelli che Lei ritiene titoli, e penso si riferisca ai titoli scolastici, a me non servirebbero a nulla. I miei titoli sono la correttezza, la serietà e la fermezza di carattere. E, mi creda, sono al livello universitario perchè conseguiti in un ambiente che non ti regala nulla. Non esiste una scuola privata che le fa i tre anni in uno. Quanto al capitale, non credo che tutte le imprese nascano dai soldi che possiede chi le crea quanto, piuttosto, dalla fiducia che la persona ha nel suo giro di conoscenze. E dalla gentilezza dei direttori di banca che credono nelle sue capacità.
  • O nella forza della sua intimidazione? Lo interruppe il giudice.
  • Signor giudice allora è questa l'accusa? Io intimidisco? E mi dica: Lei da chi è intimidito?
  • Da nessuno. Rispose prontamente il giudice. Conto solo sulla mia rettitudine e vado a testa alta.
  • Vede? Un uomo giusto non teme nessuno. Se qualcuno teme o è debole o è nel torto. Ma non credo che a lei interessi questo aspetto della vicenda. Lei vuol sapere dei miei interessi economici vero? Quindi le spiego semplicemente che un amico, un costruttore, in difficoltà economica ha ritenuto di coinvolgermi nella sua attività. Ho esaminato i punti deboli del suo operato e ho chiesto che, per qualche tempo, stesse in ufficio un mio nipote, Franco, figlio di mia sorella. Dopo tre mesi il mio carissimo amico, ha ritenuto di compensare il rientro di certe somme che da anni non riusciva a incassare e mi ha chiesto di entrare in società. Ho pensato di intestare le quote della società a mio nipote che adesso lavora con lui.
  • Stessa cosa è accaduta per la pizzeria dove un amico, in rosso perenne, rischiava di chiudere una splendida attività a causa di tasse e, forse, dell'incapacità di gestire i fornitori e le scadenze. Li, ho messo l'altro mio nipote, Nino, e ho passato qualche settimana dentro il locale che adesso va bene. Anche lui ha ritenuto, visto che era prossimo al fallimento, di ricambiare l'impegno assunto nell'aiutarlo con l'ingresso di Nino nella società.
  • Inutile ripeterle che la stessa cosa è accaduta con l'officina. Qui ho dovuto chiedere aiuto a un mio fratello, da anni in Germania, di inviarmi suo figlio. Sa, Pietro, mio nipote è laureato. E' ingegnere e, in banca, ho avuto meno problemi a fare finanziare l'officina.
  • Pietro, in questo caso, avendo contrattato personalmente la gestione dal marchio della casa madre, in Germania, ha chiesto di essere socio al 50%. Adesso, devo dire, che l'attività va molto bene. Lo sa che hanno la gestione dell'autoparco regionale di diversi assessorati? Tutto in regola, si intende.
  • Come vede signor giudice niente avevo appena uscito dal carcere e niente ho adesso. Solo l'affetto dei miei nipoti e il rispetto dei loro soci.
  • Allora come spiega le innumerevoli lettere anonime che raccontano un altra verità? Una verità fatta di minacce e vessazioni? Chiese il giudice.
  • Infamità signor giudice. Solo infamità e lo dimostra il fatto che sono scritte sul fango: lettere anonime. Replicò Salvatore.
  • E poi se solo una delle infamità contenute in quelle lettere fosse vera io sarei qui a rispondere alle sue domande o, invece, dentro una cella a scontare i miei, presunti, errori?
  • Guardi signor Benigno lei è sotto la mia personale osservazione e le consiglio di essere meno temerario. Volevo, con questo incontro, significarle la mia disponibilità ad ascoltarla con la massima attenzione garantendole incolumità, se necessario, per lei e i suoi familiari. Non crede che sia giunto i momento di affidarsi alla giustizia ordinaria?
  • Vede, dottore, se avessi bisogno di aiuto o ritenessi di dover chiedere tutela sarei venuto io a cercarla e non avrei aspettato il suo gentile invito. Ma, credo, che siamo fatti della stessa pasta: “Conto solo sulla mia rettitudine e vado a testa alta.” mi ha appena detto. E vale anche per me. Nessuno dei miei amici o conoscenti ha mai avuto modo di lamentarsi di un mio comportamento. Nessuno ha reclamato su mie azioni o decisioni. E alcuni miei amici sono in Comune, alla Regione e in Parlamento, non sto parlando di bottegai. Anche se devo dire che, quasi sempre, l'onestà e la serietà di un bottegaio non è moneta di scambio nella politica. O forse è proprio questo il problema: troppi ex bottegai disonesti vengono selezionati per stare in politica. Ma questo è un altro discorso.
  • Comunque sono contento di essere sotto la sua “protezione” ma, mi creda, sono soldi sprecati inutilmente quelli che deve utilizzare per me. Li usi per altre indagini. Poi, dottore, faccia come crede.
  • Per me può andare, Salvatore ma resti a disposizione. Chiuse il giudice lasciando una spada di Damocle pendere sulla sua testa.
  • Sono onorato di averla conosciuta signor giudice ma le assicuro che non avremo modo di rivederci.
Appena tornato a casa chiamò Pinuzzu e gli disse di prepararsi il necessario per stare fuori una settimana.
Avvertì Rosy che sarebbe mancato per qualche giorno e che doveva recarsi dal fratello in Germania.
Pinuzzu condusse l'auto fino al luogo indicatogli, la Piana dell'Occhio, appena fuori Palermo dove c'era un locale caratteristico che serviva pane caldo, facce di vecchia,vino e uova bollite.
Sedettero a un tavolo prossimo a un altro dove stavano due persone intente a intingere uova bollite in olio e sale.
Con noncuranza descrisse, sottovoce, l'incontro con il giudice ai commensali dell'altro tavolo e spiegò che sarebbe stato meglio lasciare per un po la Sicilia ma che per ogni evenienza Pinuzzu sarebbe stato a disposizione e che sarebbe stato sempre in condizione di contattarlo. Il più anziano dei due rispose, guardando in altra direzione, che avrebbe dovuto incontrare una persona in Svizzera, prima di andare in Germania, e dette indicazioni su cosa dirgli e su dove riparare appena arrivato a destinazione.
Da anni tanti amici avevano creato una rete di attività nel settore della ristorazione in Germania per cui era più facile trovare riparo e ospitalità li che non in Sicilia. Poi la rete parallela di campani e calabresi offriva un modo sicuro per scomparire quando era necessario.
E Salvatore sapeva che l'interessamento del giudice preannunciava una retata imminente. Come sapeva che in questi casi fare “scruscio” con infiniti arresti esponeva gli anelli della catena più deboli alla paura del carcere e li disponeva alla collaborazione con la giustizia.
Aveva, quindi, pensato di trasferirsi in Germania e, poi, di mandare a chiamare Rosy.
Le attività erano ormai rodate e andavano a pieno regime. Pinuzzu conosceva esattamente il modo di gestire ogni aspetto del traffico di sigarette di contrabbando, sua vera attività, come conosceva la sua avversione con il traffico degli stupefacenti e la sua reazione se avesse trasgredito. Ma, ormai, vedeva avanzare sempre più spregiudicate giovani leve che ottenevano immensi guadagni da quel commercio.
Sapeva di non avere la forza per impedirlo. Ne lui ne quanti, ancora, vi si opponevano.
Sei mesi, quasi, erano passati dal suo ingresso in Germania. A parte i tre giorni iniziali in Toscana e la parentesi dei dieci giorni in Belgio in attesa di avere documenti e nuova identità che lo mettevano al riparo da indagini e sospetti. Ora era un tranquillo uomo di mezza età emigrato da trent'anni in Belgio dove aveva lavorato in una pizzeria come uomo di fatica e questo giustificava la sua modesta cultura e l'incapacità d'avere mai imparato il francese. Era stata un idea del suo amico tipografo per spiegare il paradosso di un uomo emigrato in Belgio che conosceva solo il dialetto del paese suo.
Rosy da qualche settimana era stata assunta da suo fratello nel ristorante come aiuto cuciniera e l'aveva vista solo due volte. Lui lavorava, ufficialmente, a 120 chilometri di distanza in un forno pasticceria. Sapeva che l'interpol era sulle sue traccie e la pista della moglie era fin troppo semplice da seguire ma la spiegazione che avesse trovato riparo dal cognato, in Germania, era abbastanza verosimile.
Pinuzzu provvedeva a tenere i contatti con i nipoti e a controllare le attività che gli aveva affidato. I soci erano, tutto sommato, ancora psicologicamente sotto pressione per tentare colpi di testa o furbizie inutili e poi quella che loro credevano cresta sui guadagni lui la riteneva una giusta compensazione per il trambusto che ogni tanto gli investigatori creavano in occasione di ispezioni.
Purtroppo portava pure notizie di sparizioni e sparatorie in cui, con cadenza settimanale, cadevano uomini a lui riferibili o comunque sotto l'egida dei suoi amici dei vari mandamenti. Un paio di carichi di sigarette erano saltati durante il trasporto nelle calabrie e Pinuzzu sosteneva che qualcuno della filiera stava tragediando ma che era a un punto morto delle indagini su chi fosse l'infame. Non voleva dirlo ma traspariva la sua richiesta di un aiuto sul campo. Cosa fuori discussione, per il momento.
Poi Salvatore gli consegnava i pizzini occultati in buste di carta con camicie e magliette varie e si raccomandava di portare i suoi saluti, con i regali, ai suoi contatti a Palermo. L'idea di farsi fare delle buste di carta dal suo amico tipografo in Belgio, durante il suo soggiorno, con uno spazio sul fondo sufficiente a contenere un pizzino ripiegato stava, ancora, tornando utile. La prova era stata l'ispezione delle buste da parte della polizia durante un posto di blocco al suo ingresso in Italia. Avevano smontato la Fiat Uno pezzo per pezzo ma l'ispezione era risultata negativa e lui sapeva che l'occasione dei due viaggi in Germania di Pinuzzu era troppo ghiotta perché il giudice non ne approfittasse.
Ora doveva, necessariamente, organizzare una discesa a Palermo.
I documenti in suo possesso lo identificavano come un originario di una piccolissima frazione del comune di Resuttano in provincia di Caltanissetta. Il suo contatto in Belgio assicurava che il nominativo era di un suo compaesano emigrato e poi scomparso in Argentina decenni addietro. E, aggiungeva, che era sicuro non avesse alcun parente al paese d'origine. La copertura lo teneva relativamente tranquillo. I dieci chili che aveva perso durante il soggiorno in Germania e un taglio molto ordinario dei capelli con il nuovo pizzo e baffi lo facevano sembrare trasfigurato a detta della stessa moglie.
Quindi decise di scendere con un pullman che faceva scalo a Caltanissetta. Sapeva che le Madonie erano a un tiro di schioppo e l'aver scelto di non commettere reati pesanti in quella zona aveva fatto sì che fosse perfetta per il rifugio di quanti non volevano contatti con la giustizia. La risposta al pizzino inviato nei giorni addietro era arrivata e indicava l'indirizzo in un paesino delle Petralie dove avrebbe trovato, in una masseria, rifugio e ogni conforto. Ormai con la guerra in corso tra palermitani e corleonesi era diventato difficile capire chi era tuo amico e chi era pronto a venderti alla prima occasione. Ma avere un fratello di sangue e di mille battaglie lo rendeva sicuro e accettò l'indicazione.
Appena giunto alla masseria fu accolto da una faccia amica che sapeva di conoscere. E quando questi si presentò non ebbe più dubbi. Era Ninetto un bracciante agricolo con cui aveva passato qualche anno a S. Vittore in occasione delle sue frequenti trasferte nelle carceri italiane nei suoi primi dieci anni di detenzione. E, Ninetto, chiarì subito che la promessa di vent'anni prima di potersi disobbligare dell'aiuto ricevuto durante uno screzio in cella che lo avrebbe visto soccombere in assenza dell'autorità di Salvatore, aveva adesso occasione di potersi realizzare. Era a sua completa disposizione. Lo rassicurò circa la donna, albanese, che lo avrebbe accudito per tutto il tempo che egli avesse deciso di passare nella masseria e chiese di cosa avesse bisogno. La risposta fu che non serviva nulla se non un passaggio per Palermo dove, in piazza Politeama, l'indomani alle 12:00 aveva un appuntamento.
Ninetto assicurò che lo avrebbe accompagnato lui personalmente con il suo furgone. C'era un telefono nella cucina che fungeva da soggiorno e Salvatore simulò un malessere passeggero per cui chiese di poter dormire nel divano che Ninetto sistemò immediatamente. Appena buio consumarono una cena a base di olive, pecorino e cicoria con un vino di cui aveva perso la memoria e finse di addormentarsi sul divano, in soggiorno.
L'indomani alle sette scesero verso il mare dirigendosi a Palermo senza passare per l'autostrada.
Si fece lasciare al porto e chiese di essere ripreso alle 13:00.
poi, per vie laterali si diresse verso via Dante dove, al terzo piano abitava suo nipote Franco e da dove si aveva una perfetta visione della piazza prospiciente al Politeama.
Stette a controllare il luogo dove aveva indicato a Ninetto che si sarebbe svolto l'incontro ma non vide traccia di alcuna presenza ne di sbirri ne di facce conosciute. Spiegò a Franco che si sarebbe fatto risentire ma di non fare menzione con alcuno di quell'incontro e si diresse verso il porto dove fu raccolto da Ninetto.
Ora era sicuro dell'affidabilità di Ninetto: non aveva usato il telefono per avvisare nessuno durante la notte e non aveva indicato ad alcuno il luogo dell'appuntamento. Decise di premiare la sua fedeltà e chiese di essere accompagnato a sferracavallo dove consumarono un pasto a base di pesce e odore di mare.
Aveva certezza di trovare da Franco lo scatolo che gli aveva consegnato un anno addietro e, adesso, si sentiva più sicuro avendolo trovato senza segni di apertura e, cosa più importante, con il contenuto al suo posto. Sapere di avere due automatiche perfettamente oliate e il denaro sufficiente a vivere per un anno lo rendeva coperto da alcune preoccupazioni.
Chiese a Ninetto di fare il pieno ma di passare da Carini prima di indirizzarsi verso le Madonie.
Conosceva a memoria i sentieri che si dipanavano per le campagne di Carini in direzione di Torretta e sapeva che qualcuno lo aspettava in una stalla con annesso caseificio. Giunti a pochi metri dal muro di confine lasciò una pistola a Ninetto e mise l'altra nella cintola. Poi si indirizzò verso il portone della casupola annessa alla stalla. Precauzioni non necessarie, fortunatamente, l'anziano che lo aspettava si fece trovare solo e con un sorriso negli occhi che non ammetteva dubbi. Si abbracciarono con vigore e fecero il punto della situazione. I “peri 'ncritati” come venivano definiti i corleonesi avevano sconvolto ogni equilibrio: facendo leva sui giovani picciotti con denaro facile, frutto del commercio degli stupefacenti, e con lupare bianche nel caso dei più riottosi o omicidi plateali in pieno giorno con rinvenimento dei corpi incaprettati in piazze specifiche, avevano insinuato il terrore e il rispetto di intere schiere di picciotti fin li fedeli alle famiglie storiche che li avevano visti crescere. Nessuno aveva più rispetto di nessuno.
Era un continuo ostentare orologi d'oro, auto sfarzose e disprezzo per i valori fondanti di una comunità che aveva retto per secoli. I cugini americani interpellati chiedevano solo di rimettere pace tra tutti per evidenti ragioni commerciali: erano i primi clienti di alcune droghe e e primi fornitori di altre.
Onore, rispetto, dignità, parola erano diventati in un attimo parole vuote.
Nessuno era più al riparo di un codice mai scritto ma sempre osservato: donne, bambini, divise e giudici non vanno mai toccati. Palermo era diventata Beirut e, cosa più ripugnante, i metodi sud americani di gestione del terrore erano stati calati pari pari nel quotidiano. Messa così era una situazione senza via d'uscita. Salvatore chiese cosa ne pensassero i napoletani e, sopratutto, i calabresi ma la risposta fu agghiacciante: nessun contatto fin quando la situazione non fosse stata riportata a controllo totale. I siciliani, in altre parole, vedevano svanire una supremazia psicologica che li aveva visti decisori finali per tanti decenni. Allora Salvatore chiese cosa ne pensassero gli amici di Roma. Ma la risposta lo lasciò di stucco: lo Stato aveva bisogno di pace e controllo del territorio. Chiunque lo assicurasse diventava lo Stato. Parola di numero uno. Quindi i corleonesi erano lo Stato adesso, pensò.Chiese, quindi, di quanti nella migliore. Quindi o si scappa o si resta latitanti o si aspettano i ferri. Non c'è via di scampo. E gli avvocati consigliano di scomparire. “Sti cornuti con tutti i soldi che hanno arraffato in questi anni...” aggiunse. Salvatore si congedò e chiese di aggiornarsi a tre giorni dopo. Appena tornato nel furgone disse a Ninetto di tornare a casa.
Ora due automatiche ben oliate e il denaro per vivere un anno non gli parsero più una sufficiente sicurezza di fronte ai giorni che si preparavano. Salvatore sapeva che c'era una possibilità ulteriore, anche se negata da tutti, che aleggiava sopra la testa di quanti si ritrovavano nelle varie alleanze: la delazione. La tenuta di un ordine così ampio e diffuso era garantita dalla omertà che vincolava tutti gli appartenenti alla organizzazione e dal sottinteso impegno a regolare all'interno ogni questione. A Palermo come a New York e dovunque, nel mondo, si trovassero amici legati dal patto di fiducia reciproca valeva questa regola aurea. Ora, però, le notizie portavano messaggi inequivocabili. Il sequestro del suocero di un suo amico che era sotto la protezione del “Principe” , ovvero l'uomo dell'ultima parola a Palermo per tanto tempo, oltre ad intaccarne il prestigio annunciava che nessuno era più intoccabile. La grossa esposizione economica che aveva visto negli ultimi tempi i palermitani traghettare montagne di soldi verso Milano e in mani di imprenditori abilissimi ma non associati non indicava nulla di buono. I continui tentennamenti del “Banchiere volante” nello spiegare dove erano finiti i soldi inviati in America segnalavano che la politica e il Vaticano avevano smesso di porre il loro sigillo sugli affari in campo internazionale. La lunga stagione dei sequestri di persona perpetrati al nord che avevano fatto forti i corleonesi e il loro capo, che appariva beffardo con il suo sigaro sempre tra le labbra durante le udienze dei processi, non sembravano più così rassicuranti per quanti vivevano all'ombra dell'immunità garantita che egli assicurava o, quanto meno, prometteva.
Quelli che erano rimasti liberi a Corleone non sembravano proprio aspettare indicazioni dalla cella in cui era detenuto, anzi, non perdevano occasione per fare “scruscio e batteria”. E Salvatore sapeva cosa nascondevano quegli atteggiamenti eclatanti. Nelle ultime due riunioni aveva avvertito come un gelo che serpeggiava tra uomini fin li sempre sicuri e solidali. Qualcuno non parlava e qualcun altro parlava troppo. Segno di mutati, inconfessabili, accordi che nulla di buono lasciavano presagire. Ora sapeva che occorreva agire ma non aveva certezza su alcuno così come sapeva che, vista la sua intransigenza, sarebbe stato l'ultimo a essere cooptato nella nuova direzione che si stava imponendo. E sapeva che in tanti avrebbero preferito non confrontarsi con lui preferendone l'eliminazione. Tutto questo portava gli uomini a innalzare il clima di violenza per potersi distinguere ma, intanto, creava solo orfani e vedove. La potatura è un arte delicatissima: se la usi con intelligenza i frutti saranno migliori e più numerosi, se eccedi la pianta muore.
E quando non puoi eliminare chi ti ha ferito diventa facile usare le divise per ottenere vendetta.
Quindi la delazione diventa arma per chiudere pendenze ma, allo stesso tempo, costituisce la falla che affonderà la nave. Sapeva che non era più tempo di chiacchiere e metafore raffinate per far ragionare i più riottosi e che occorreva, adesso, il pugno duro. Tutto questo passava per la sua testa mentre lentamente si annacava sul patio della casa colonica sopra un accogliente sedia a dondolo, quando Ninetto lo invitò a sedersi a tavola per la cena. Aveva chiesto capretto a “sciusciarieddu” ( pezzi di carne di capretto in tegame conditi con una fricassea di rossi d'uovo e succo di limone e menta ) considerato quanto, Ninetto, ne aveva decantato la bontà durante il viaggio di ritorno da Palermo. E la donna anche se albanese mostrava di essersi integrata perfettamente con la cucina madonita. Dopo cena fecero un salto a Gangi, paesino arroccato su un monte che ne ha sostituito la vetta in un dedalo di viuzze e paesaggi di una bellezza che mozza il fiato, per incontrare una vecchia conoscenza. L'ospite lo accolse in un vano che ricordava il riparo di un asino o un mulo. Aveva l'abbeveratoio e la mangiatoia caratteristiche con un anello di ferro ove legare l'animale. Ma l'assenza di paglia a terra e la condizione perfettamente netta del locale ne indicava l'uso passato ma non presente. Sopra si innalzavano due altri piani di casa da cui si sentiva provenirne il ciarlare di donne e risa di bambini. Quando l'anziano, con un cenno muto degli occhi, ottenne assenso da Salvatore circa la confidenza da dare a Ninetto spostò i vari strati di incannato che erano sovrapposti sulla parete alle sue spalle e comparve un piccolo varco ad arco. Con la lucerna ad olio che illuminava il passo si incamminarono nel corridoio che parve non finire mai. Dopo molti di metri di roccia scavata si trovarono di fronte a un portoncino antico con un serramento che pareva arrugginito da secoli ma che mostrò la sua perfetta oliatura permettendo l'accesso all'ampio salone. Un gigantesco lampadario costituito da due travi di legno appaiate da barre di ferro che mostravano, ancora, le docce dove erano, un tempo, posizionate le candele ma che adesso ospitavano dodici lampadine esili e poco illuminanti attirò l'attenzione di Salvatore. Tanto da non avvedersi che, nella penombra della stanza, v'erano tre persone sedute al tavolo, anch'esso monumentale, posto sulla verticale sotto al lampadario. Sedie ai lati e addossate alle pareti, una credenza di quercia simile a quelle viste nelle sacrestie di vecchie chiese e nulla più arredavano l'ampio salone.
L'uomo seduto a capo tavola invitò l'anziano accompagnatore a portare di sopra Ninetto per fargli assaggiare la ricotta calda col siero. Quindi furono soli. Salvatore abbracciò l'uomo a capo tavola e gli furono presentati gli altri due che non aveva mai visto ma che sapeva essere i capi mandamento di Geraci e Polizzi Generosa. Tra tutti v'era un rispettoso contegno che dopo il bicchiere generoso di vino e un pezzo di formaggio si trasformò in una sorta di vecchio cameratismo. Era proprio questo che aveva affascinato da sempre Salvatore: il sapere che tra “punciuti” ( pratica attraverso la quale con un ago si punge il polpastrello dell'iniziando per prestare il giuramento di affiliazione ) ci si poteva abbandonare in conversazioni e atteggiamenti scevri da circospezioni guardinghe. Quando, finalmente, si arrivò attraverso un tango di allusioni e metafore al problema cruciale e i tre compresero che Salvatore non era venuto a proporre affari o commerci ma a valutare le rispettive posizioni rispetto ai “viddani” di Corleone, allora, la conversazione si irrigidì in tanti “se” e troppi “ma”: segnale che il problema s'era posto da tempo e aveva trovato una soluzione. Salvatore quindi diluendo in un discorso vago e ricognitivo di una situazione della quale voleva dare a vedere di non conoscere nulla, chiuse il suo intervento ponendo l'accento sul fatto che trent'anni di galera lo avevano stancato e che quindi stava valutando di uscire di scena ma di volere, nel contempo, assicurare comunque, la sua lealtà ai segreti di cui era depositario nei confronti di quanti, con lui, vi avessero partecipato. Questo rilassò il capotavola che propose un brindisi ai vecchi tempi e un augurio per quelli nuovi. Quindi congedò i suoi ospiti e rimase da solo con Salvatore.
-”Salvatore per tanto tempo ho pensato che il comandare è meglio del fottere e a questo ho preparato mio figlio come tanti amici hanno tentato di fare. Ma, adesso, di fronte a questi banditi non sono più sicuro che sia stata la scelta più saggia. Vengono a fottermi i picciotti portandoli in giro macchine che io nemmeno per il matrimonio di mia figlia penserei mai di usare. Li colmano di regali e denaro facile. Li invitano a fare la bella vita a Milano nei nightclub dove li pompano a cocaina. Poi io come faccio a spiegargli che una famiglia, una parola e il basso profilo sono le regole del successo per una vita lunga e serena? Come spiegargli che non arriveranno a trent'anni?”
-”Abbiamo avuto la nostra occasione.- replicò Salvatore – Era comprensibile che quando è entrata la droga nel business di tante famiglie il tempo non è più bastato a evidenziare le differenze tra chi vale e chi in poche settimane guadagna cifre che, talvolta, necessitano di mesi, anni per essere guadagnate. Ma è in quei mesi, in quegli anni che conosci le persone, ne vedi le debolezze e selezioni i migliori. Ora con una botta di cocaina e un revolver in mano in tre minuti rovinano l'esistenza di intere famiglie e, come per i cani, quando assaggiano il sangue non si fermano più.”
-”Salvatore è una battaglia persa. L'unica via è farsi da parte e, quando si saranno scannati i padri con i figli e non rimarrà più nessuno fuori dal fosso o dalla galera, vedere se qualcosa si sarà salvato.”
-”E quello che penso di fare.” - Concluse Salvatore.
Il padrone di casa gettò una voce nel vano della scala che conduceva al primo piano e rifece accompagnare Salvatore e Ninetto al portoncino.
Adesso Salvatore sapeva che la sua resa sarebbe arrivata a destinazione in pochissime ore: si faceva da parte prima di essere “posato” dai nuovi referenti o, peggio, di essere eliminato.
S'era fatto molto tardi e appena giunto alla masseria si preparò per la notte.
All'alba consegnò del denaro a Ninetto che mostrò offesa per il gesto ma, alla fine, comprese l'intento di Salvatore che non intendeva pagare la sua ospitalità ma accomiatarsi, forse per sempre.
Si fece accompagnare alla stazione di Termini e prese un treno per Palermo. Ninetto mostrò una lacrima durante l'abbraccio di saluto di Salvatore.
Appena giunto alla stazione di Palermo, con un taxi, raggiunse la concessionaria di suo nipote Pietro e fermatosi al bar di fronte chiese a un ragazzo di consegnare un pizzino all'Ing. Benigno della concessionaria. Pochi minuti dopo il nipote, trafelato e sorpreso, lo raggiunse ma fu subito rassicurato che non c'era alcun problema. Scambiarono i convenevoli del caso e si fece accompagnare in un osteria del centro. Poi gli chiese di avvisare Pinuzzu di raggiungerlo lì.
Pinuzzu non mostrò sorpresa o nervosismo alcuno nell'incontrarlo. E Salvatore ne prese atto anche se per un attimo aveva dubitato. Pinuzzu allora dovette spiegargli perché i due ultimi viaggi di sigarette non erano stati effettuati. Sembrava che c'erano problemi a Napoli e a Brindisi. Quantunque egli tentasse di risolverli, ecco che se ne presentavano altri. Salvatore capì l'antifona e rassicurò Pinuzzu. Poi prese atto che alla Kalsa, dopo l'arresto del reggente s'era fermato tutto. La finanza sembrava sapere il tragitto e gli orari di tutti i camion e, puntualmente, sequestrava tutto: carico e mezzi. I pezzi andavano all'incastro perfettamente: si faceva terra bruciata attorno ai traffici tradizionali e ai personaggi muniti di carisma che avrebbero potuto fronteggiare il nuovo corso. Sul tavolo accanto c'era un giornale di pochi giorni prima: in prima pagina il titolo parlava dell'omicidio di Francesco Madonia di Vallelunga Pratameno. Era l'erede settantenne designato di Genco Russo e il più fidato amico di Luciano Leggio padrone di Corleone.
L'attacco adesso aveva un movente e dei responsabili evidenti.
Chiese a Pinuzzu di accompagnarlo a Villagrazia. Li incontrò il “Principe” al quale chiese indicazione sul da farsi e ebbe come risposta -” Niente, u cavaddu i cca avi a passari” ( Niente il cavallo di qua deve passare ) riferendosi al viddanu per antonomasia “ u Zù Totò”. Intanto i giorni passavano e le notizie erano sempre più gelanti: “Don Tano” di Cinisi era stato estromesso dalla commissione accusato di avere dato l'autorizzazione per l'omicidio di Madonia. Due piccioni con una fava, fottevano Don Tano e oltraggiavano “Lucianeddu”: cominciavano le tragedie e i tragediatori.
La cosa che lo turbava era che ascoltando tanti vecchi reggenti e capi-mandamenti si aveva sempre più l'impressione che il capoluogo della Sicilia si fosse spostato a Corleone e a Palermo restavano solo i vassalli. Allora assumette una decisione: liberò Pinuzzu da ogni obbligo nei suoi confronti e lo invitò a seguirlo in Germania, se avesse voluto, poi l'aiutò a rilevare una macelleria dove mise un macellaio bravo e onesto che aveva conosciuto. Fece una cena con i suoi nipoti Pietro, Nino e Franco dove dette le sue disposizioni e indicò le persone da contattare in caso di necessità. Li mise a conoscenza del fatto che sarebbe ripartito per la Germania. Abbracciò i genitori ai quali aveva assicurato una rendita che ogni mese veniva versata sul libretto della posta tramite un avvocato. Mentre era in viaggio per la Germania si accorse di avere nostalgia della sua Rosy.
Nel frattempo le strade di Palermo si coloravano di rosso che le tante lacrime non riuscivano a lavare.
Erano ormai passati più di due anni dal suo ritorno in Germania. Per la prima volta, in tutta la sua vita, aveva assaporato la semplicità di una complicità muliebre che in cambio non chiedeva e offriva violenza ma fiducia. Incondizionata fiducia. Questa ora era la sua famiglia. Grazie ai documenti falsi, e al denaro che aveva accumulato, era riuscito a rilevare una partecipazione in un birrificio con annessa birreria che produceva una discreta birra grazie al mastro birraio e, fondamentalmente, al fiume a cavallo del quale era, in parte, adagiata. L'acqua veniva attinta direttamente dal piccolo fiume. La birra in pochi mesi, oltre alla vendita diretta, si trovò sul tavolo di quasi tutte le pizzerie del Land. Salvatore in questo era sempre convincente. A parte i locali dove ne calabresi, ne campani o siciliani avevano potuto inserirsi. Ma andava splendidamente così.
-” Signor giudice è arrivato il rapporto della Interpol.”
-” Maresciallo l'ha letto? Cosa dice?”
-”Sembra che da mesi sia in corso un fuggi fuggi generale.- rispose il maresciallo- E la meta preferita sembra il Brasile. Anche se abbiamo contezza di alcuni trasferimenti in Sud Africa”
-” E del Salvatore Benigno, cosa dice?”
-” Volatilizzato. Sembra scomparso da tutti i radar.- replicò il maresciallo- anche alla catturandi le notizie sono negative. Abbiamo seguito i nipoti e il figlioccio, Pinuzzu, per mesi: casa e macelleria. Però sembra che la fornitura della carne la faccia presso quel macello riconducibile ai corleonesi. Come mezza Palermo e provincia, ormai, da mesi.
-” Non possiamo averne certezza, maresciallo, ma tutto indica una lupara bianca.”
-” Vede esistono omicidi che devono indicare una minaccia a una categoria: giornalisti, poliziotti e magistrati. Poi abbiamo quelli che devono indebolire una famiglia. E quelli che devono ricordare il vincolo di omertà a quanti si lamentano e inveiscono in pubblico. Tutti omicidi che devono essere eclatanti. Alla luce del sole, e più sono eclatanti e più arricchiscono il palmares di chi li compie e ne indicano la ferocia. Ma alcuni omicidi, e parlo dei casi di lupara bianca, sono collaterali a un indagine che viene svolta per fare terra bruciata ai boss e, quindi, non occorre che si sappia che siano avvenuti. Una mattina un amico ti chiede un incontro e da quello non tornerai mai più. Salvatore Benigno avrà avuto un invito di quel tipo – concluse il magistrato- e , credo che non troveremo mai più nemmeno le sue ossa.”
-“ Credo che quest'anno, dopo l'omicidio Bontate, saranno più i morti per le strade che i malati ricoverati al Policlinico. “ Sentenziò il Giudice.
Il tempo passava e Salvatore andava acquisendo sempre più fiducia nel suo nuovo e inconsueto stato: pensava a se e Rosy. Nessuno che lo cercasse per consigli o indicazioni. Nessuna mediazione tra interessi diversi. Solo il commercio della sua birra. Alla produzione pensava brillantemente il suo socio tedesco che non aveva mai fatto domande o posto allusioni. Gli era bastata la parola di un vecchio amico che all'inizio del rapporto lo presentò come un uomo saldo e fermo come la quercia secolare che troneggiava all'ingresso dello spiazzo della birreria. I fatti nei mesi seguenti dettero riscontro alla affermazione e il tedesco mai ebbe a muovere alcun rilievo: poneva problemi e Salvatore rimediava soluzioni.
Rosy, poi, forte dei suoi quarant'anni di conduzione del panificio era una risorsa in più: efficiente come una ragioniera e ragionevole come una donna innamorata. In questo contesto la telefonata che annunciava una visita per l'indomani mattina alle nove per Salvatore creò un piccolo scossone. Ma poco si desumeva dal contenuto dell'incontro: due funzionari dell'ambasciata italiana volevano un colloquio con Salvatore e, per discrezione, lo fissarono al birrificio. Salvatore dormì poco e male. Ma sapeva controllare le sue emozioni.
-” Buongiorno, accomodatevi.- disse Salvatore all'indirizzo di quei due uomini in abito grigio e scarpe lucidissime- Indicando i divanetti del suo salotto privato posto nella direzione del birrificio. A cosa debbo il vostro disturbo?”
-” Niente di importante, solo formalità.- Annunciò il funzionario che mise in chiaro i ruoli tra i due- Sa abbiamo fatto una rapida ricerca di concerto con il Ministero dell'Interno su una serie di nominativi e sembra che il suo figuri in partenza per l'Argentina, più di vent'anni fa, ma non sembra essere mai entrato in quello Stato. E la cosa pone degli interrogativi alla sezione statistiche.”
-” Sono cose vecchie e mi rattrista parlarne.- rispose Salvatore- Ma, sa quando successero i fatti luttuosi che mi convinsero a lasciare la Sicilia avevo pensato di emigrare in Argentina per cui chiesi il passaporto e le procedure per l'emigrazione. Poi, pensando che non sarei più tornato in Europa, decisi di passare a salutare un compaesano che da anni era emigrato in Germania. Fu lui a convincermi a tentare l'esperienza quassù. Debbo a lui se non misi in atto la mia decisione. Tutto sommato stavo bene. E, oggi, non mi lamento.”
-” Sa c'è un altro particolare- aggiunse il funzionario mentre il collega annotava tutto- sembra che lei conviva con una siciliana, tale Rosy, che risulta essere stata sposata due volte.”
-” Convivere? Che parolona. Ho solo dato un tetto ad una donna sfortunata cui morì il primo marito e del secondo si sono perse le tracce. Sembra che la portò in Germania dove poco tempo dopo sparì. E una donna eccezionale nel tenere i conti in ordine e, con affettuosità, mi pregio di ospitarla. Tutto qua.”
-” Vede noi abbiamo un doppio incarico. Uno ufficiale dell'ambasciata Italiana e uno, diciamo ufficioso, del magistrato che sta per emettere decine di mandati di cattura, in Sicilia, che potrebbero scardinare una struttura secolare: la Mafia”
-” E perché ritiene che io debba sapere queste cose?- chiese Salvatore- cosa può interessare a un quasi sessantenne ormai trapiantato in Germania di cosa accade in Sicilia?”
-” A detta del giudice molto. Ha insistito personalmente di, una volta individuato il secondo marito della signora, convincerlo a collaborare. Non ci sono mandati di cattura a suo nome. E', per lo Stato Italiano è un uomo libero. Aggiungo che ai massimi vertici del governo si vede con preoccupazione la piega che sta assumendo l'indagine in Sicilia. Diciamo che si ha nostalgia dei tempi andati quando c'era poco “scruscio e tanto controllo”. Lei mi capisce, vero?” Concluse.
-” No. Sinceramente non la capisco. Non seguo la politica italiana ne, tanto meno la cronaca siciliana. Mi spiaccio, questo sì, per l'immagine che il mondo si fa dei siciliani. Ma che posso farci ?”
-” Sa che, addirittura, c'è una parte del governo, in Italia, che sarebbe favorevole a, diciamo, una transazione a saldo e stralcio di tante posizioni individuali se si addivenisse a una ...chiamiamola Pax tra le varie compagini che si stanno sterminando in Sicilia? Credo che chi riuscisse a creare un incontro tra i vertici di quelle fazioni e i vertici dello Stato potrebbe, poi, avere un ruolo importante in Sicilia...”
-” Il mio collega è un alto ufficiale dei carabinieri e ha avuto l'assenso di garantire un eventuale accordo. Chiaramente dopo avere esaminato le eventuali richieste. Crede che se, un giorno, si presentasse il marito della signora Rosy potrebbe spiegargli il senso della nostra conversazione?”
-“ Credo di si come credo che sia un eventualità molto remota ma, ed è l'unica cosa che posso fare, cercherò di convincere la signora Rosy a ricordare se è possibile individuare una traccia che porti al suo, mai dimenticato, marito.”
-” Vede perché abbiamo preferito parlare con lei? Sembrava inutile scomodare la signora e più utile parlare con l'uomo che tanti aiuti le ha dato.”
-” Dobbiamo dire qualcosa al giudice appena tornati in Sicilia?”
-” E cosa dovreste dirgli? Forse solo che avete sbagliato persona e avete incontrato una persona “retta” e salda che ha fatto del sacrificio quotidiano la sua arma vincente. E se quest'arma può essere messa a disposizione della serenità della sua terra non sarà certamente creato nessuno ostacolo che non possa essere superato. Ma, si sa, il futuro è in mano a Dio.” Concluse Salvatore. E li accompagnò alla porta dove, prima di uscire, il Colonnello gli porse un biglietto da visita. Dietro recava una scritta vergata a mano: “ Con grande fiducia. G.A.”

Ora sapeva che il Giudice sapeva.

Da sempre, Salvatore, aveva acquisito la capacità di memorizzare i tratti delle persone con cui veniva in contatto. Il tono della voce, la gestualità e, soprattutto, gli sguardi. Sapeva leggere negli occhi dell'interlocutore la bugia, la malizia, l'onestà e quanto le frasi cercavano di nascondere. Era un predatore per natura ma aveva un empatia istintiva con lo stato d'animo della preda. Questo per dire che tutta la notte seguente, nei suoi dormiveglia abituali, fu dedicata alla vivisezione di ogni parola del funzionario e nel modo in cui l'incontro si era snodato in un apparente , innocua, normalità. Riconosceva che tutto indicava la disponibilità di uno Stato impaurito e impreparato a tali tragici eventi a intavolare una trattativa con chi stava scuotendo le fondamenta del “principio di tranquillità” dove tutti, amici, politici, imprenditori e gente comune organizza le proprie storie se non i propri intrallazzi. Lo Stato per decenni aveva tollerato traffici piccoli e grandi e tante volte era entrato in affari, quando i numeri in gioco lo giustificavano, con pezzi industria, finanza politica e sin anche sindacato. Attraverso l'autorevolezza delle personalità che scendevano in campo giornali, TV e opinione pubblica venivano, di volta in volta, sistematicamente indirizzati verso una verità piuttosto che un altra. Come spiegare questi concetti a uomini che stavano mostrando una colombizzazione dei metodi ? Palermo, ormai, sui giornali, anche quelli da sempre amici, veniva paragonata a Beirut. Non si liquidava più l'uomo che si metteva di traverso a traffici e situazioni ma , per colpirlo, non ci si curava di quanti, vittime del caso, restavano uccisi e magari sbrindellati da un auto bomba che veniva affidata a killer spietati. Tutto andava fatto subito e in quel momento. Con lentezza e con riflessione posizionava, come in uno scacchiere mentale, i pezzi ciascuno al loro posto. E saltava all'occhio che molti non giocavano con le caratteristiche del proprio ruolo: la chiesa non era più in grado di mediare ne a livello del piccolo frate ne a livello dell'autorevole Vescovo. In Prefettura tutti si guardavano da tutti. Le questure scoppiavano di segnalazioni che era impossibile catalogare tra fonti attendibili e delazioni interessate. Omicidi eccellenti tra i giornalisti che tentavano di stemperare la curiosità della categoria, risultavano stimolanti per teste calde che s'avventuravano su indagini e supposizioni investigative. Insomma non era uno scacchiere di pace ma una bolgia infernale. E, in tutto questo, lui che c'entrava? Come avrebbe potuto, senza farsi sbirro, organizzare un incontro tra i nuovi barbari e un pezzo di Stato prontissimo a negare tutto, se qualcosa fosse andato storto, e quindi pronto ad abbandonarlo al suo destino se non a eliminarlo? Quale vantaggio avrebbe tratto da una mediazione al limite dell'impossibile? E gli amici americani che parte avrebbero avuto nella vicenda? Una voce gli aveva sussurrato che il padrino di Cinisi era stato estromesso e aveva trovato riparo negli USA. Fino ad allora era stato il suo mentore ufficioso: non aveva mai sbagliato una diagnosi ne, tanto meno, una cura. Eppure, come tanti amici, aveva deciso per l'espatrio, per la fuga.
L'ultima notizia ricevuta mostrava il giudice molto informato nei dettagli, nelle dinamiche. Segno che un pezzo grosso aveva saltato il fosso. Troppi particolari, troppe deduzioni davano alla vicenda questo sentore. Ma chi aveva potuto sfidare secoli di omertà e di riserbo? Chi s'era pentito? E, ammesso che avesse potuto trovare sponda a Palermo in qualche moderato ancora munito del prestigio necessario, come fidarsi di una Stato che era abituato a sconfessare ogni funzionario che mostrava un po di logica? Se era normale abbandonare i propri servitori perché doveva essere affidabile al punto di affidargli la propria vita? Non fare nulla, poi, e godersi la sua ormai raggiunta serenità non era la cosa più logica? Era abituato a porsi domande ma mai gli era accaduto di non sapere porre le risposte giuste. Segno che in questo gioco, questa volta, lui non era esiziale e la cosa lo disturbava alquanto. Decise di mandare a fanculo funzionari, giudice e quant'altro. Passarono diverse settimane e la sua decisione gli appariva sempre la più sensata. Ma, come in ogni storia, c'è sempre un accadimento, un fatto che sovverte il naturale svolgimento dei fatti. Attraverso le solite vie, il fratello che risiedeva in Germania lo avvertiva che il figlio, Pietro, era tornato a casa e voleva un incontro. Non era facile trovare il modo di incontrarlo ora che sapeva di essere controllato ma doveva farlo. Si spostò, allora, in una cittadina distante un centinaio di chilometri dal birrificio dove sapeva che si svolgeva una Fiera dedicata alla ristorazione e fece in modo che il nipote potesse essere accreditato in nome e per conto della pizzeria paterna. La notte seguente lo raggiunse nell'albergo dove era ospitato. Lesse subito negli occhi del nipote la tragedia che si materializzò dopo che ebbe finito di raccontare cosa stava accadendo a Palermo. E la notizia che gli altri due nipoti, Nino e Franco, mancassero già da diversi giorni lo trovò impreparato. Pensava che il messaggio che aveva lasciato a Palermo fosse chiaro: si poneva fuori dai giochi ma, in cambio, non voleva avere parte nello scontro in atto. Ebbe subito chiaro che il messaggio era indirizzato a lui. Ma non riusciva a comprendere chi lo inviasse. La sparizione di uno solo dei nipoti poteva addebitarsi a uno sgarbo, un colpo di testa che veniva punito con l'omicidio e la sparizione del corpo. Ma il fatto che fossero caduti entrambi dava alla vicenda il peso di un avvertimento. Quindi avvertì Pietro di non muoversi dalla casa paterna e di stare in guardia ché lui, poi, avrebbe risolto tutto.
Già, ma come?
Durante il viaggio sul tir verso la Sicilia ebbe tutto il tempo di pensare. E la sua convinzione lo portava a credere che i “viddani” alla ricerca della gola profonda stessero facendo terra bruciata attorno a tutti i vecchi elementi nella vana ricerca del responsabile. Era la strategia più logica: fare uscire allo scoperto per intimidire i nuovi pentiti e, alla cieca, punire chi non era passato alla nuova guardia. Le decine di morti tra donne e bambini innocenti davano peso a questa ipotesi. Sapeva che Nino e Franco solo a una persona vicina allo zio Salvatore avrebbero affidato la propria vita e, quindi, era un suo vecchio amico che doveva cercare per trovare il traditore. Ma sapeva anche che non era il tempo della vendetta quanto il tempo della mediazione. Arrivato a Palermo si recò nelle campagne di Torretta per cercare chi sapeva da tempo passato con la nuova cupola. I nuovi padroni di Palermo. Andò armato anche se sapeva che non era sufficiente garanzia avere un arma addosso: se le intenzioni erano malevole non avrebbe avuto il tempo di usarla. Aveva usato un giovane muratore dell'impresa dove lavorava uno dei nipoti scomparsi per arrivare sin li. Una faccia nuova che era sconosciuta e, quindi, affidabile. Il giovane era stato avvertito che avrebbero dovuto fare una stima dei lavori necessari a un fabbricato rurale e che alla fine ci sarebbe stata una generosa mancia per il disturbo.
Appena arrivati furono accolti da un paio di giovani dal fare sbrigativo e sicuro che lo intromisero in un ampio salone di un vecchio fabbricato. Poi, prese istruzioni dal padrone di casa, portarono il giovane in giro per il fabbricato. E Salvatore si trovò faccia a faccia con l'anziano patriarca.
-” Salvatore perché questa visita?”
-” Don Filippo non è una visita di cortesia ma piuttosto un ambasciata.” Rispose.
-” Da parte di chi?- chiese l'uomo anziano- E, sopratutto rivolta a chi?”
-” Don Filippo quando partii fui chiaro, mi “canziavo” in cambio della serenità. Io il mio impegno l'ho mantenuto ma qualcuno non ha mantenuto il proprio. Ora,a questo punto, nei “palazzi” a Roma si chiede pace e si offre tregua. Tutti hanno perso qualcuno e troppi piangono in silenzio. E' tempo di smettere il casino e tornare al silenzio. Bisogna andare in immersione, verso la tranquillità. E lo Stato è pronto a mettere tutti i silenziatori del caso. Io non ho cambiato opinione sulla affidabilità dello Stato ma comprenderete che da qualche parte bisogna iniziare. Voi che pensate?”
-” Frati miu cosa vuoi che interessi cosa penso io? Qui il lunedì si dice di mangiare carne e il martedì salta fuori qualcuno che porta pesce. Ma ogni giorno io vedo solo piatti di “ reschi ri pisci” (lische di pesce) e questa cosa , hai ragione tu, non è buona. ma qual'è la tua proposta e chi se ne fa garante?”
Salvatore porse il biglietto del Colonnello e invitò Don Filippo a leggerne il retro.
Un sorriso malizioso prese posto sul viso dell'anziano patriarca.
-” E tu come proponi che si debba svolgere l'accordo. Chi si siede con chi? Chi comincia i passi per tentare un discorso di questo tipo?” Replicò, infine, l'anziano.
-” Credo che con tutti questi uomini in galera è proprio da li che bisogna cominciare”.
-” Il pentito ha dato in mano al Giudice tutti quelli che lo hanno tragediato. E, credo, ci siano più uomini al gabbio che in libertà. E' su loro che dobbiamo fare breccia. Nessuno ama pensare di passare l'intera vita all'ergastolo. Saranno loro a fare pressione”
-” Mi piace la pensata - sottolineò l'anziano patriarca- e sono d'accordo. Faremo partire da li la spinta a ragionare.”
Una stretta di mano sancì il più pericoloso dei patti. Ora Salvatore sapeva che la proposta sarebbe arrivata a Corleone. Come sapeva che era una speranza vana e temeraria che lo esponeva in maniera irreversibile.
Prima di lasciarsi il patriarca disse a Salvatore:-” Credo che la proposta sia sana e onesta e non so come verrà accolta ma un regalo te lo devo fare: sembra che i tuoi nipoti furono invitati a Ciaculli per una mangiata la settimana scorsa.” Salvatore capì e si congedò. Quindi uscì e invitò il giovane muratore a chiudere il preventivo e a tornare in ufficio

Quindi l'infamia partiva da Ciaculli – pensò- durante il tragitto di ritorno. E lui aveva un solo amico a Ciaculli che adesso stava in galera.

Salvatore trovò riparo presso un ufficietto 40 metri quadrati in viale Lazio che Pinuzzu aveva da tempo preso in affitto e trasformato in rifugio con angolo cottura che lo rendeva autonomo e confortevole per un eventuale vacanza forzata. L'edificio non aveva portiere e l'ascensore rendeva rapida l'entrata ed uscita in perfetto anonimato perché scendeva sino al piano garage interrato. Non dovette aspettare molto la risposta che attendeva: L'Ora, quotidiano palermitano, particolarmente attento a decifrare fatti e misfatti che in quei giorni si incrociavano a Palermo, pubblicò la foto di Don Filippo in un istantanea che lo ritraeva attorcigliato su se stesso nell'ultimo disperato istante di vita. Rivoli di sangue usciti dai fori dei proiettili indicavano spari da almeno tre direzioni. Il messaggio di risposta allo Stato era chiaro: nessuna tregua, nessun accordo. Salvatore sapeva che una pax era il suggellamento di un accordo che cristallizzava posizioni e supremazie territoriali. Ed il segnale indicava che il tempo di questa pace era lontano a venire e che la dittatura che si stava imponendo non era ancora consolidata. Il Giudice, ne era sicuro, avrebbe fatto le stesse osservazioni e sarebbe arrivato alle stesse conclusioni. Come convenuto, alle prime ore dell'alba, Pinuzzu aspettava nel garage presso la porta dell'ascensore che Salvatore scendesse. Saliti in auto gli presentò un giovane uomo che alla domanda di Salvatore: “ te la senti?” rispose affermativamente. Con serenità, con sicurezza. In pochi minuti in una Palermo semi addormentata la 127 coprì il tragitto della circonvallazione fino a Ciaculli. Al segnale dei tre scampanellii brevi seguiti da uno lungo l'uomo scese dalla sua abitazione e superata la sorpresa mostrò serenità nell'incrociare lo sguardo bonario di Salvatore. Entrò in auto dal lato passeggero mentre Salvatore era alla guida. Fecero poche decine di metri e in uno slargo prospiciente ad un cancello di ferro di un agrumeto Salvatore accostò. Spense il motore e chiese:
Giovanni hai notizie dei miei nipoti?”
Salvatore l'altra sera li avevo invitati per una grigliata ma non si sono presentati. Avevo un ambasciata da dare a te ma, visto che sei qui, posso dartela adesso” Rispose.
Dimmi pure...” Accennò Salvatore.
Ma la risposta rimase serrata in gola mentre, da dietro, Pinuzzu, comparso dal nulla, serrava la sua gola con un filo di freno da bicicletta. Lo spasmo fu inizialmente convulso e violento ma cessò dopo mezzo minuto. Forse era giunto prima un infarto per la paura. O per la mala coscienza. Accese il quadro e dette tre colpi al pedale del freno. Al segnale convenuto una 112 si avvicinò e il giovane scese e si accomodò dietro per far spazio a Pinuzzu che si mise alla guida per riportare a casa Salvatore. Appena giunti sulla circonvallazione Salvatore si sbarazzò, lanciandola dal finestrino, del pezzo di lingua avvolta in un fazzolettino che aveva reciso al morto. Almeno i suoi parenti avevano un posto dove piangere il defunto, pensò, mentre le sue nipoti non avevano nemmeno quello.Giunto nel suo rifugio pensò solo a farsi una doccia e a mettere la camicia in una tinozza con della candeggina per eliminare le tracce di sangue raggrumato prima di disfarsene. Ormai il sole aveva preso possesso della via e il bar era pieno di muratori e venditori ambulanti che prendevano il loro primo caffè. Un salto in edicola per il Sicilia aspettando l'edizione pomeridiana dell'Ora chiuse le sue commissioni.
Tornò al rifugio e si mise a letto.
La sveglia trillò ma lo trovò in dormiveglia. Scese per acquistare il quotidiano L'Ora ma non trovò, nei titoli, alcun riferimento alla 127. Solo un trafiletto in cronaca all'interno. Tanto, ormai valeva la vita di un uomo in quei giorni di mattanza. L'ennesimo regolamento dei conti, sosteneva il cronista.
Era tempo di tornare da Rosy. Ogni volta, e questo non smetteva mai di stupirlo, ne sentiva sempre più la mancanza quando se ne trovava lontano. Era una sensazione che lo faceva sentire debole per qualche attimo ma che lo rendeva forte nei minuti successivi. Sentiva di avere uno scopo, una meta che non era legata al denaro, al potere. Ma non accettava ancora che potesse essere amore. Per lui c'era l'affetto, il legame, la complicità e la sua vita non gli aveva mai consentito di codificare un sentimento più alto di questo. L'amore è per i romanzi, per i Santi, per i deboli. Decine di anni passati ad affidare la propria vita alla lealtà, al rispetto, alla parola, alla dignità avevano reso sterile il suo cuore all'amore che per lui significava debolezza, bisogno, rischio. S'era mai visto un lupo innamorarsi di una lupa? Un branco può affidare la sua sopravvivenza a un capo branco che non sia in grado di abbandonare un elemento quando questi si presenta, per la sua debolezza, un peso per la comunità? E cosa era lui se non un lupo?
Se tante persone che si erano avvicinate a lui ora potevano dirsi autonome, libere, vive non era forse per la sua capacità di reprimere i sentimenti e fare la cosa giusta nel momento giusto? Ogni persona che aveva pagato un prezzo per essersi messa di traverso ai suoi progetti non era forse colpevole? E non meritava, dopo il necessario avvertimento, di essere messa fuori dal gioco? Non è la vita stessa che impone queste scelte? Non è da secoli che i re e, dall'inizio, i capi del villaggio si trovano a sacrificare vite, uomini e persone per creare la propria autorità? Non lo hanno forse fatto Papi e Cardinali? E' la trama della vita che, talvolta, trova dei nodi che devono essere recisi perché l'ordito proceda veloce e l'arazzo appaia bellissimo. Chi mai ha girato un arazzo e ne ha contato i nodi?
Tutto questo pensava, ma sentiva comunque uno strano rimescolio nel suo animo a pensare a Rosy.
Un senso di impotenza dovuto alla lontananza che lo rendeva ansioso di tornare e, con lui, la sicurezza da offrire a una donna che aveva aperto uno squarcio nella sua coscienza. Ora che ci pensava l'unica violenza che aveva perpetrato quella mattina era stata la recisione di una lingua a un corpo morto ma nient'altro, mentre era vivo. Non aveva sfogato la sua rabbia per la scomparsa dei suoi nipoti come un tempo avrebbe fatto fino a sbucciarsi le nocche delle mani. Niente, aveva solo dato prova di crudeltà e potere a Pinuzzu con quel gesto, a dissimulare uno stato d'animo che non poteva essere messo alla luce. E Pinuzzu non aveva esitato durante tutta l'operazione. La faccia era salva ma sapeva che qualcosa mutava nella sua coscienza. Fu in una frazione di secondo che decise di non ricorrere più a quel tipo di violenza. Ebbe un flash dove il viso piangente della vedova e dei figli gli provocarono compassione. Quel volto che idealizzava si trasfigurava nel volto di Rosy e provava dolore nel vederlo contrito, arreso, disperato. Non gli era mai successo. Organizzò il viaggio di ritorno con un camionista che si imbarcava quella sera per Genova e proseguiva per la Germania.E non ci pensò più. Si presentò a piedi al porto dopo essere passato ad abbracciare l'anziana madre. Con la consapevolezza che sarebbe stato per l'ultima volta.

Non era alla morte, possibile, della madre che pensava ma quella di Salvatore. Il Salvatore sin qui vissuto. Ne nasceva un altro che di tutti quei massacri, di tutte quelle infamità, di tutto quel mondo sentiva di non aver più parte. 

Il camionista gli fece posto in cabina e cominciarono a chiacchierare in attesa dell'imbarco.
Il viaggio in nave, in parte, avvenne di notte. E al mattino ricordò frammenti del sogno: Ballarò, la sua infanzia, squadre di monelli che scendevano a mare verso la Kalsa – quartiere storico che si affaccia sul mare – e tenevano battaglie, il giorno dei Morti, a Novembre, con i monelli del quartiere. Carrozze che sul lungomare portavano in giro i benestanti di una Palermo dove il pane era un lusso e dove, durante la sua infanzia, tutto era un miraggio. Dove un paio di scarpe era la protezione non per camminare sul selciato tra pozzanghere e acquitrini ma segno distintivo per sfuggire agli sguardi vigili degli sbirri che. al soldo di uno Stato assente, governavano le strade e ne erano gli sceriffi. Ricordò una pietrata sulla fronte di un ragazzetto fuori contesto con scarpe nere e lucide sopra calzettoni estivi e una voce che lo chiamava da un angolo di strada: “ Giovanni, vieni via. Adesso, subito.” E il suo viso che si trasformava, si deformava, diventava adulto e assumeva i tratti del giudice che lo aveva interrogato, che lo cercava. Poi si trovava con il padre su un carretto assieme a uno zio che scendeva da Montelepre con un carico di paglia e fieno per gli animali sotto cui, ben occultato, c'era una mezzena di vitello avvolta in un lenzuolo che suo padre sezionava appena arrivato a Ballarò e che vendeva al mercato nero. E gli sbirri che a sera venivano a reclamare la “ parte” ( la loro piccola porzione a pagamento del silenzio e dell'occhio chiuso durante la giornata). Vedeva la tavola dove suo padre sedeva a capotavola, la sera, per consumare l'unico pasto della giornata nel silenzio generale. Cicoria e patate bollite con cipolle ad insalata che la madre aveva condito con un cucchiaio d'olio e tre di aceto. E quella forma di pane coperta dal canovaccio bianco, lindo, di cotone che veniva aperto e richiuso religiosamente dopo il taglio di ogni fetta. E quel bicchiere di vino bianco che accanto una caraffa d'acqua troneggiava per l'intera cena. Poi suo padre in un angolo del tinello puliva, come ogni sera la doppietta e le scarpe con una precisione che era cronometrata dieci minuti alla doppietta e cinque alle scarpe. E, finite le pulizie, sua madre che spegneva le candele e la lampada a olio che per quasi un ora aveva rischiarato la oscurità della casa. Poi a letto. Tutti. E alle quattro e mezzo la vita ricominciava: carretto, mulo e via a cercare cibo o commerci per vincere un altra giornata. Vedeva le giornate domenicali che qualche volta avevano a tavola l'insalata di “ musso e arance” o i “ carcagnoli” - le parti cartilaginee della mascelle o dei piedi dei maiali o dei vitelli- o se la “ fornacella” era accesa – piccolo recipiente di lamiera dove il carbone ardeva - “ stigghiole” o, ancora, qualche pesce azzurro che era il pranzo per la famiglia e la delizia olfattiva per tutto il vicinato. Vedeva insomma la sua infanzia, la povertà della sua infanzia ma non ne provava vergogna, anzi, ne sentiva nostalgia. Vedeva un madre bella e un padre amorevole anche se arcigno che, comunque, non lesinava carezze sfuggite da quelle mani gigantesche sia per le sue sorelle che per lui ed il fratello. Ma che qualche volta, poche per la verità, diventavano fonte di timore per la nuca di entrambi. Vedeva poi l'entrata del carcere dove per la prima volta fu portato e ricordava la settimana di passione che subì a opera di sbirri che si divertivano a torturare tutti i tradotti nelle patrie galere a prescindere dal loro stato di colpevolezza. Si usciva dalla guerra e dal fascismo. Ma nel carcere dovettero passare anni prima che se ne accorgessero. Poi si svegliò, intontito, come una persona che esce in pieno giorno da un cinema dove ha perso la cognizione del suono e della luce e che, per diversi minuti sembra aleggiare su una realtà che era stata annullata. Presero un caffè e cominciarono la giornata con l'autista dell'autotreno. Sbarcati che furono a Genova decise di prendere un treno per Milano. A Milano, come in tutte le le città in cui avevano preso la residenza tanti scappati da Palermo, ma anche dalla Campani e dalla Calabria c'era una comunità silenziosa e operativa.
Decine e decine di uomini abituati a lottare con la vita e con la morte giornalmente avevano trovato l'eldorado al nord. Entravano in banche per prelevare denaro senza bisogno di rapinarle. Le truffavano semplicemente. Quasi sempre con la complicità di un funzionario infedele che dava l'assenso a un fido o a una scopertura di conto che puntualmente non veniva ripianata. Il meccanismo era semplice: con l'aiuto di un imprenditore in odore di difficoltà economica locale si provvedeva ad aprire conti dove venivano depositate somme via via più consistenti e si comprava con assegni post- datati merce che si svendeva per contanti. Nessuno faceva domande se i meridionali erano scorretti i settentrionali erano famelici. Quando la fiducia del fornitore era al punto massimo e gli assegni post-datati pure si mandava il primo assegno in protesto. Non prima di avere svuotato i conti. Le immobiliari vendevano case bellissime sulla carta e le banche con l'aiuto di notai prezzolati erogavano muti frazionati in base all'avanzamento dei lavori. Di solito il cliente restava padrone dei bei disegni a china e colorati della casa dei suoi sogni. Poi in cantiere c'era un fossato che alle prime piogge si riempiva d'acqua e niente più. Insomma diciamo che i contrabbandieri e i truffatori meridionali avevano scoperto che non occorreva rapinare per arricchire. Certo c'erano i violenti che si innestavano sulle male locali dedite a prostituzione e usura ma di quella gente Salvatore non voleva sentire nemmeno l'odore. Non c'è onore a sfruttare donne e disperati, pensava. E poi da anni i soldi del commercio border line dei siciliani avevano trovato dei maghi della finanza milanese e dei costruttori che rendevano un buon margine. Gente con buone entrature internazionali che diversificava. E lui li era indirizzato: aveva da riscuotere un investimento notevole frutto dei traffici di sigarette suoi e dei suoi associati. E, adesso, era l'unico sopravvissuto di quella cordata. I soldi, poi, erano tanti. Non gli fu difficile, appena giunto a Milano, di essere ricevuto all'ultimo piano della società dove uno smagliante sorriso lo mise a suo agio e un elegante “sarà fatto” mise fine alle sue richieste. Poi un “ ora mi scuso ma ho un appuntamento col Sindaco” e un “ il Dottore Ribera è a sua disposizione per definire le modalità dello spostamento dei fondi” mise fine a un incontro di sei o sette minuti. Sempre efficienti i milanesi. Uscì con un piccolo foglietto in cui era annotato un saldo in dollari e due numeri di conto di una banca svizzera. In un altro foglietto c'erano le parole d'ordine per accedere ai conti.Maurizio, un piccolo imprenditore di Arona in provincia di Novara, che era stato suo compagno di cella in una sua permanenza al carcere di Opera, fu felice di sentire che sarebbe passato per una rimpatriata di poche ore e, quando si incontrarono, non volle sentire ragioni: cena assieme e l'indomani avrebbe provveduto lui ad accompagnarlo a Lugano. E così fece. Quando si lasciarono alla stazione una lacrima di commozione solcò il viso di Maurizio: poche ore erano state sufficienti a ricordare l'afflato che Salvatore aveva dimostrato nei suoi confronti quando aveva visto arrivare un uomo distrutto nella sua cella. In pochi giorni lo aveva rimesso in piedi e Maurizio gliene era riconoscente.
Per ogni detenuto che incontrerai, figlio mio, - gli aveva detto un anziano ergastolano – ricorda che se lo tratti bene qui dentro, avrai un fratello la fuori...”. Era vero pensò Salvatore.
Ora era il momento di andare a casa. Dalla sua Rosy. Tutto era stato sistemato.
Quando la portiera del pullman si aprì aspettò che drenasse un po di gente prima di scendere e, appena a terra, si diresse verso un bar. Aveva lasciato, come al solito, il sacchetto con il cambio d'abiti nel vano del pullman. Si fece bastare quel lontano sapore d'espresso affogato in un tazzone d'acqua calda e, uscito dal bar, cercò tra le persone in attesa il garzone che il suo socio aveva mandato a prenderlo. Trovò, invece, due facce conosciute ad attenderlo.

-” Colonnello, buongiorno come mai da queste parti ? “ Disse all'indirizzo dei due.
-” Indovini un po'...” Replicò l'agente in borghese, invitandolo a salire sulla Mercedes in moto.
-” Abbiamo pensato che le avrebbe fatto comodo un passaggio sino al birrificio. Sarà molto stanco del viaggio, no?”
- “ Bah, più che stanco dispiaciuto. Come sono sempre quando un affare non si conclude positivamente. Ma che ci vuol fare, Colonnello, ogni affare ha i suoi tempi. E per quello che avrei voluto chiudere io, credo che ne occorrerà tanto di tempo. Diciamo che le condizioni non sono mature. Ma perché parlare dei miei affari, avrà certamente qualcosa da dirmi se si è scomodato fino a qui, no?” Tagliò corto Salvatore.
- “ Veramente nulla, non ho proprio da dirle nulla. Avevo solo sperato in notizie di prima mano dalla Sicilia. Sa il giudice è sempre convinto che lei ha a cuore l'esito di certe storie come e più di lui. Si sbaglia?” Insinuò il Colonnello.
- “ Vede certe cose stanno a cuore a tutti. E si spera che la Provvidenza aiuti. Ma si vede che anche lei ha i suoi tempi.”
- “ E noi aspetteremo. A proposito di Provvidenza ha letto dei 500 mandati di cattura spiccati in Sicilia ? Sembra che un amico abbia saltato il fosso. E qui comincia il declino di un Impero...”
- “ Dice?- interloquì Salvatore – Ho letto una sfilza di nomi ma non mi sembra che ci fossero politici nell'elenco. Quindi l'impero è salvo. I soldati cadono in battaglia ma sono subito sostituiti, non crede?”
- “ Vedremo – replicò irritato il colonnello – vedremo”.
Intanto erano giunti nello spiazzo camionabile del birrificio e Salvatore si congedò e scese.
Quando la Mercedes, sgommando, ripartì alzò gli occhi verso la finestra dell'ufficio e incrociò lo sguardo di Rosy.
Era a casa, finalmente.
Sbrigò un po di faccende nel suo ufficio, firmò delle carte che il suo collaboratore gli sottoponeva con la traduzione a lato e avvisò il suo socio che, per un paio di giorni, sarebbe stato nell'albergo sul lago che gli aveva fatto conoscere un anno prima. Sapeva che Rosy sarebbe stata contenta di averlo tutto per lei per un fine settimana. Furono due giorni di intimità e coccole, colazioni sul balcone e pranzi all'aperto, pennichelle e risate. Ma finirono. Tornato al birrificio trovò un appunto di Pietro, il nipote, che lo avvisava di avere comprato il giornale italiano di due giorni prima e di averglielo lasciato sulla scrivania. Lui comprese e, a malincuore, lo aprì. Poche righe con foto, all'interno, davano conto del ritrovamento di due cadaveri incaprettati dentro un contenitore dei rifiuti davanti una caserma dei carabinieri. Lesse i nomi e s'accomiatò nel suo cuore da Pinuzzu e, purtroppo, il giovane uomo che li aveva aiutati. Erano le regole del gioco. Le conosceva e aveva imparato a non lamentarsene mai.
Un altro appunto indicava un appuntamento in un locale per le ventuno del giorno appresso. Aveva fatto l'invito l'ingegnere Paola. Sapeva che non poteva mancare. Anni prima aveva accettato di essere iscritto in un club a Trapani che aveva, gli riferivano, sedi a Palermo e in tutta Italia. Poi scoprì che erano in tutto il mondo. Lo stranizzò quella procedura da film per cui per essere iscritto, non bastava la quota annuale ma doveva sottostare a strani comportamenti che gli erano parsi comici ma che vedeva accomunare tanta gente importante. Quindi pazienza se dovette, la prima volta, scoprire una gamba, essere bendato giurare qualche cosa che adesso non ricordava e ritrovarsi infine seduto tra i banchi alti, scuri insieme a tanti avvocati, ingegneri, funzionari, direttori di banca, politici. Insomma la Trapani che contava. E poi, da allora, la Palermo che contava. Chi lo introdusse gli spiegò che non occorreva che si presentasse a tutti gli incontri dentro l'associazione ma che era gradita la sua presenza alle cene che ne seguivano. Agapi le chiamò. E il nome era così strano che lo memorizzò subito. Quando si trasferì in Germania non lo sorprese che anche lì vi fossero sedi dell'associazione.
Ma anche lì raggiungeva i soci, dopo che si erano riuniti per le loro faccende, al ristorante. E così fece anche la sera dell'invito. Conversò, portò dei regali per eventuali ospiti – cassette con salsicce e birre artigianali del suo birrificio- e poi si appartò con l'Ingegnere. Dopo i convenevoli d'uso, questi, lo informò che degli amici fraterni lo aspettavano sopra il ristorante, nell'ufficio del titolare, anch'egli associato. Salì, quindi, dopo essere passato dall'auto e avere preso un rivoltella che teneva nascosta in auto, e si recò presso l'ufficio. Da tempo nello scrivere pizzini a amici, per lo più latitanti, aveva preso l'abitudine di indirizzarli non ad un nome ma a un numero. E così facevano con lui. Lui era numero sette. E tanto bastava. L'eventuale confidente questo poteva riferire e non il nome. Quindi uno stupore amaro lo colse quando, entrando, s'accorse che uno dei tre seduti sulle poltrone era numero due. Gli altri li aveva conosciuti a Milano ed erano da tempo impiantati li dove conducevano delle importanti attività presso i Mercati Generali senza avere mai smesso i rapporti con gli amici palermitani.
Si salutarono con il bacio rituale e le mani di ciascuno corsero lungo le spalle dell'altro a simulare un afflato che, invece, serviva ad assicurarsi della presenza o meno di un arma alla cintola sopra i glutei. Tutti e quattro ne erano forniti.
  • Salvatore - esordì numero due – sai il rispetto che tutti abbiamo di te, della tua storia, del tuo comportamento e per me fu una gioia la sera della tua affiliazione e un onore quando tutti convennero che a Ballarò tu dovevi garantire la pace. Qualche volta ci hai dato dei dispiaceri ma tutti abbiamo capito che per te il traffico di droga era un discorso chiuso. Ma sei sempre stato fedele alla parola data.”
  •  “ Ora tutti abbiamo capito che non hai avuto il tempo di avvisare, l'altra mattina, prima di chiudere il conto con la buonanima ma capirai che, in tua assenza, qualcuno doveva organizzare la risposta. Ti faccio le mie condoglianze per il tuo amico fraterno ma in guerra si cade. E si cade in entrambi i fronti. - continuò - Ora il capitolo è chiuso. Tu che dici? “
  • Dico che tutti noi siamo pronti a ogni evenienza. Queste sono le regole del gioco e mi occuperò io della famiglia di Pinuzzu. Il capitolo è chiuso.” Replicò Salvatore dissimulando la commozione nel pronunciarne il nome.
  • Sistemata la questione, ora andiamo al motivo dell'incontro. Sappiamo che a Roma c'è tutto l'interesse a spegnere le vampe che stanno bruciando mezza Sicilia. Ma le cose non stanno più come l'ultima volta a Catanzaro. Li sapevamo in partenza chi sarebbe stato assolto subito e chi poi in Cassazione.Questa volta c'è un governo che gioca su tre o quattro tavoli. Gli amici che a Palermo hanno mangiato tanto adesso li vedi tentennare. Prendere tempo. In una parola sono mozzarelle con la scadenza e non lo sanno.
Questo nuovo giudice e i suoi compari stanno smantellando mezza Sicilia. E da Don Masino nessuno si spettava una sbirrata del genere. Non mancherà molto e altri lo seguiranno.”
Salvatore seguiva in religioso silenzio attendendo di capire cosa si volesse da lui.
- “ Tu ti stai chiedendo cosa c'entri in tutto questo. E' presto detto: devi aprire un canale con quel Colonnello che ti tampina. Devi prepararlo a ricevere le nostre richieste. C'è, addirittura, una relazione al Ministero che prevede di utilizzare il 41bis non solo per le rivolte ma in tutti i casi dove un pubblico ministero individua l'associazione e se succedesse questo sarebbe come murare vivi tanti padri di famiglia. Serve un po di elasticità in Cassazione. Insomma dobbiamo alleggerire la posizione di tanti amici che cominciano a non “tenere” più la vita carceraria. E tu, sai a cosa mi riferisco. Tutti, da questa parte sappiamo come hai superato il carcere tu e tutti ti rispettiamo. Loro lo sanno per questo hanno scelto te per arrivare a noi.” Concluse numero due.
- “ Non ho mai messo la mia vita, le mie cose davanti agli interessi della famiglia. E non comincerò adesso. Ma cosa devo fare esattamente? Cosa devo promettere? E chi garantirà? La mia parola non credo che interessi al Presidente.” Replicò Salvatore.
- “ A Roma ci stanno lavorando come a Palermo e a New York. Ti lascerò un mio uomo a lavorare da te e avrai un contratto con delle pizzerie a Palermo. Lui scenderà a consegnare le birre e salirà con le mie parole. Io terrò buona “ la testa dell'acqua” ( Il numero uno ). Per quanto è possibile”. La discussione ebbe fine e scese nel ristorante per finire l'agape con gli amici. Che non conosceva.

Quella sera, a casa, sentì il calore delle braccia di Rosy in un modo diverso. Un abbraccio che dava calore, confort. Ebbe un brivido a trovarsi a pensare questa cosa. Ma la pensava con tutto il suo cuore.

Giuseppe posò con accurata lentezza il manoscritto sul tavolo e guardò all'indirizzo della madre che sembrava assopita sulla sua dormeuse. Sorrise pensando che quando glielo aveva regalato, lei, con gli occhi pieni di felicità, aveva esclamato:-” No, Giuseppe non dovevi regalarmi a “ rurmusa” - nel suo vecchio dialetto palermitano- Non dovevi farlo.” Ma da qual giorno non aveva smesso di usarlo anche se per una sola mezz'ora dopo pranzo.
Ma l'ultraottantenne Rosy non dormiva. Aspettava curiosa la reazione di Giuseppe dopo la lettura del manoscritto. E domandò:-” Ti è un po più chiaro adesso chi era tuo padre?”
Giuseppe era stordito da quelle rivelazioni e si domandava come poteva l'autore conoscere le sensazioni di suo padre legate ai fatti narrati. La storia è una collana di fatti. Alcuni più veri, riferiti, e altri presunti, dedotti ma gli stati d'animo citati nel manoscritto da dove venivano? E qual'era la verità sulla morte del padre? Cosa accadde dopo l'incontro in pizzeria con il numero due?
La madre intuiva le domande di Giuseppe e sapeva che un giorno sarebbero state poste quindi decise di metterlo al corrente:-” Giuseppe, tuo padre dopo quell'incontro venne da me e, finalmente, si confidò. Fu l'unica volta che vidi lacrime sul suo viso. Nemmeno anni dopo, quando il cancro lo divorava ma lui, per principio, non voleva morfina per combatterlo, quando i dolori se lo mangiavano, ebbe mai lacrime da versare. Ma quella volta le sue lacrime servivano a lavare una cosa che lui non credeva di avere: la sua anima. La sentiva sporca, cattiva e sapeva che le sue mani erano sporche di sangue e lacrime degli orfani e delle vedove. Mi disse molto, forse non tutto, ma bastò a provocare in me un moto di perdono. Io lo assolsi con la forza dell'amore che avevo per lui e con il sussidio dell'amore che lui aveva scoperto di avere per me.”
-” E poi che successe? ” Chiese Giuseppe.
-” Poi, con la lucidità che aveva sempre nei momenti di pericolo, disse che dovevamo andare via. Mi disse che aveva dei soldi in Svizzera e che aveva predisposto dei piccoli conti fiduciari per le sorelle a Palermo da dove, ogni mese, partiva una rendita sufficiente a farle vivere. E che aveva aperto un conto in Sud Africa dove potevamo prendere abbastanza ogni mese per stare felici fino alla nostra morte.”
-” Quindi prima partii io con dei documenti che aveva fatto fare tempo prima, per ogni evenienza, mi disse, e poi mi raggiunse lui dopo due settimane. Li aveva un amico scrittore, o così sosteneva perchè io un suo libro non l'ho mai letto, e cominciò a dettare le sue memorie. Ci misero tanto tempo: correggevano e ricorreggevano ma alla fine finirono il manoscritto. Adesso lo hai in mano tu. Prima di morire mi chiese che quando avessi ritenuto avrei dovuto consegnartelo. Sai, quando tu arrivasti dopo un anno di problemi con l'adozione – che i soldi di tuo padre puntualmente risolvevano- lui era già un altra persona e averti in braccio lo rendeva orgoglioso. Ma ti potè godere solo qualche anno poi la malattia se lo portò. Ed io tornai a Palermo”.
-” Avevo un plico da consegnare a un giudice come tuo padre mi aveva fatto promettere di fare e così feci. Dopo un paio di settimane un giudice del tribunale dei minori mi mandò a chiamare e mi spiegò che, anche se la procedura sarebbe stata lunga e “ forzata ”, era stato pregato da un collega di risolvere la nostra posizione in Italia. Fu intrapresa una storia al Ministero - che io non capii perfettamente - ma alla fine io tornai con il mio cognome e a te ti fu assegnato un cognome di fantasia. Ma tu sei Giuseppe Benigno figlio di Salvatore Benigno.”
Salvatore di Ballarò.

Carlo Mocera