SALVATORE
DI BALLARO'
Era
cresciuto in una casa di Ballarò. Un quartiere di Palermo, dei
palermitani. Una cosa che non puoi spiegare ai ragazzi di oggi. I
“multiculturali” che hanno accettato un pezzo d'Africa non sempre
corretto, quanto affamato, e pronto a tutto pur di sopravvivere un
giorno in più in una triste vita, forse senza leoni della savana o i
mercenari del Sahara, ma in mano alle iene dei borderline travestiti
da picciotti. I multiculturali, gli accollativi, i rappers di un
nuovo stile di vita che, poi, usano questa carne persa solo per
fornirsi di fumo e droghe varie. Salvatore ormai cinquantenne non era
entrato all'Ucciardone per eccesso di avidità ma per il suo senso
dell'Onore. Non aveva rapinato, non aveva rubato. Riteneva d'avere
subito uno sgarro e aveva emesso una sentenza. Poi l'aveva applicata.
Trent'anni possono sembrare lunghissimi ma, se la scuola familiare è
forte e ti tiene aggregato con pacchi mensili e notizie settimanali
che arrivano nei modi più impensati, possono scorrere in modo
ordinato. La legge 354 del '75, poi, lo aveva aiutato, negli ultimi
anni, a visitare l'anziana madre, che era il suo idolo, e il
taciturno padre. Per poche ore, è vero, ma che ti fai bastare
pensando a quando non avevi nemmeno quelle. Comunque, alla fine, il
secondino pronunciò il suo nome ad alta voce e il detenuto divenne
uomo libero accompagnato al portone dove sapeva che, stavolta, non
era previsto il rientro.
Come
una persona che esce da un ascensore dopo avere fatto 115 piani, lui
si trovò barcollante sul marciapiede che attornia le mura
dell'Ucciardone. Tremava, e non di paura, aveva l'impressione che la
terra tremasse, il gesto automatico di accendere una sigaretta non
mise le cose a posto. Rimase intontito per un po. Dicono che la
libertà, quando te la restituiscono, fa questo effetto. La valigia
che gli consegnarono all'uscita gli parve fuori luogo e il cassonetto
dei rifiuti gli sembrò un posto consono dove gettarla. E con essa,
il suo passato. Aveva chiesto all'avvocato di non avvisare la
famiglia. Contava nella gioia, reciproca, della sorpresa quando,
suonato il campanello, sua madre avesse chiesto – chi è? Dalla
casa circondariale a Ballarò bastano quindici minuti.
E'
da Ballarò al carcere che, talvolta, basta un attimo.
Suonò
al campanello ma non riconobbe la voce che domandava chi fosse.
Allora chiese lui di chi fosse quella voce. Ahmed, fu la risposta.
Salì velocemente per la scala e appena entrato si trovò un letto in
soggiorno, addossato al muro. Sua madre, per niente sorpresa, lo
aggiornò sull'ictus che aveva colpito suo padre che, adesso,
riconosceva in quel corpo dimesso che stava sotto una leggera
copertina. Li baciò entrambi e si fece bastare la giustificazione
della madre sulla presenza di Ahmed: accudiva suo padre. Suo fratello
era emigrato in Germania e, ormai, non spediva più nemmeno l'aiuto
economico dei primi tempi. Le sorelle sapeva già essere inguaiate in
matrimoni sbagliati con balordi perdigiorno. Ma a questo avrebbe
pensato dopo. Si informò sommariamente su di cosa avesse avuto
bisogno sua madre e scese per strada.
Pensava
di andare a trovare vecchi amici e conoscenti. Il bar era sempre li,
svoltato l'angolo. Ma entrato che fu, si accorse che era un ritrovo
di magrebini e ragazzi di colore. Alcuni alle prese con un paio di
birre e altri impegnati con le slot. Sei, addossate a una parete che
ne poteva ospitare quattro e , sui trespoli, sei automi impegnati a
sfidarle. Il barista non lo riconobbe ma vide alle sue spalle,
incorniciata, la foto del vecchio barista e se ne informò. Il
banconista mostrò rispetto e tristezza nel dire che il padre era
venuto a mancare otto anni prima. Già il padre...quindi lui era
Settimo, il figlio. Ma non volle farsi riconoscere. Non adesso,
pensò.
Aveva
delle priorità. Una scaletta di cose da fare con un urgenza
decrescente.
Si
spostò a Porta Nuova dove doveva consegnare un paio di pizzini
affidatigli da amici in cella.
Con
l'occasione riassaporò un panino con panelle e crocchè. Che ai suoi
tempi erano ...cazzilli.
L'amico
che ricevette i pizzini lo informò che era sua disposizione un
negozietto di abbigliamento e lo convinse ad approfittarne subito,
viste le condizioni del suo abbigliamento. La cosa non lo offese e la
giudicò essere plausibile. Il commerciante lo accolse con modi
affettati e rispettosi e propose i suoi capi assicurando che erano
già stati pagati da un amico comune. Lui sapeva che nessun denaro
sarebbe arrivato al commerciante ma finse di esserne onorato. Poi si
spostò a Brancaccio dove sapeva che un suo amico aveva aperto un
officina. Amicizia nata nella sezione dove avevano passato quattro
anni insieme. Non poté esimersi dall'accettare il caffè di
benvenuto, quattrocento euro in “prestito” e un ciclomotore che
l'amico insistette a donargli perché -”non è elegante che ti
sposti in autobus”. Della patente necessaria per il ciclomotore non
era informato ma quel maledetto casco proprio non l'accettava. Però
il portapacchi, dietro, fu provvidenziale per caricare le borse della
spesa. Chiuse così la prima giornata di libertà e decise che per
qualche giorno sarebbe stato comodo a casa di sua madre ma, quanto
prima, necessitava della sua libertà: una stanza, cucina e bagno. Di
più non gli serviva, pensò. O non ne era abituato. A sera, finita
la cena, si ricordò della prima cosa che si era ripromesso di fare
appena uscito di galera. Quindi scese, si informò dove poterla fare
e risolse anche quella necessità. Senza alcuna concessione alla
poesia e ai fronzoli che l'avevano contornata durante le sue lunghe
notti in cella.
Passò
un ora al capezzale del letto di suo padre e dette la notte libera a
Ahmed. Tentò in tutti i modi di intavolare una conversazione col
padre ma fu tutto inutile: i suoi tentativi di risposta venivano
completati dalla madre che pensava che Salvatore non sarebbe riuscito
a capire.
Troppo provata e dalla vita per comprendere che un uomo
cerca solo il contatto con suo padre e non sono importanti le parole.
Ma le voleva troppo bene e non le disse nulla.
La
seconda giornata la iniziò tessendo le stradine di Ballarò, a
cercare vecchi volti amici e vecchi sorrisi ancora presenti sul suo
cuore ma scomparsi dai luoghi ove nacquero. Una cosa lo sconvolse:
l'enorme numero di extracomunitari , scuri, neri, piccoli, avvolti in
tuniche lunghe fino ai piedi, in veli che nascondevano sguardi
femminili, in canotte improbabili su mutandoni sbracati calati sotto
l'elastico delle mutande, sopra ciclomotori senza targa ne faro.
Sguardi pieni di sfida in mezze tacche che, in frotte, scorrazzavano
per il quartiere e un infinità di bettole che spuntavano da ogni
dove. L'unica presenza amica era, per lui, il volto dei commercianti
e lo sguardo attento e preoccupato di decine di studenti universitari
che si dipanavano per le stradine. Habitat sbagliato e fauna
improbabile pensò. Durante la detenzione veniva, insieme agli altri,
costantemente aggiornato sulla gerarchia dei picciotti del quartiere
e di chi li governava. Quindi decise di recarsi da Filippo che sapeva
essere, ora, “u zù Filippu”. Fu accolto con simpatia e rispetto
dentro la piccola salumeria dove una sedia di plastica, davanti al
negozio, simulava il piccolo trono del referente di quartiere che vi
stava assiso con noncurante, apparente, apatia per ore. L'incontro si
svolse nel retro bottega trasformato in un improvvisato laboratorio
per cucinare babbaluci, carciofi e patate bollite. Due
sedie, un tavolo con una caraffa di vino bianco e due bicchieri
l'essenziale coreografia. Alla parete un immagine di Santa Rita.
Filippo conosceva il reato che aveva portato Salvatore in galera e,
per questo, gli mostrava rispetto. Nella dinamica dei rapporti che
reggono quelle amicizie, un omicidio senza chiamate di correità e in
risposta a uno sgarbo familiare subito, pongono l'individuo con una
sorta di mostrina a tre stellette sulle spalle che mostrano subito
il grado di affidabilità. Salvatore lo capì subito quando,
ristretto in cella, appena ammesso a vita comune, fu oggetto del “
processino” che i detenuti imbastiscono per ogni nuovo arrivato che
culmina con una sentenza che sovrasta quella che lo Stato darà
successivamente nell'Aula del Tribunale. E la sua sentenza fu che si
era comportato bene. Con dignità e onore.
Ora
uscito dal carcere quella sentenza costituiva la sua carta di credito
in una società liquida, sommersa e invisibile ma che governa la
pancia di Palermo. E non solo.
Chiese
una spiegazione a Filippo dell'invasione del quartiere da parte di
quella enorme massa di stranieri, ma senza razzismo solo per gelosia
geografica e senso di appartenenza. La risposta fu priva di
diplomazia e recava una sofferenza ma indicava una possibilità:
-”Servono a noi, alla città, al Sindaco, a tutti. Stanno al loro
posto, pagano l'affitto e anche l'aria che respirano e fanno quello
che i picciuttieddi non
vogliono più fare”. Un male necessario, insomma.
Si
fece bastare la risposta, assicurò la sua lealtà e mise al corrente
Filippo che non aveva bisogno di nulla. Per il momento.
Ma
Filippo gli spiegò che erano altri ad avere bisogno di lui e che
passato un breve periodo di vacanza lo avrebbero cercato.
Un
sì era impossibile ma un no era improponibile quindi, prese tempo.
Le
lunghe giornate e, in special modo le lunghe nottate, passate in
cella lo avevano abituato a riflettere con pacatezza e a porre le
infinite variabili di risposta a ogni singolo fatto che gli si
presentava. Una frase dentro un breve discorso, un gesto, un
ammiccamento conteneva sempre un messaggio chiaro, cristallino, sotto
il velo opaco della apparente innocuità.
Poteva
indicare una facoltà, una risorsa, una eventualità e, ad ognuna,
aveva imparato, occorreva dare seguito senza fretta e senza irruenza.
Anzi più l'azione era meditata e più risultava efficace.
E'
una scuola di vita, di psicologia quotidiana che forgia, quando trova
menti aperte e duttili, grandi pensatori e efficaci uomini d'azione
quella della vita ristretta in ambienti detentivi.
Qualche
coltellata, magari di striscio, l'aveva presa nei primi anni. Ma
aveva imparato che anche la violenza è pesata dentro una vita
organizzata in rigide regole carcerarie. E non lo preoccupavano
quelle dell'Istituto che cambiavano a ogni sostituzione di Direttore
o avvicendamento di secondini, erano quelle immutabili del codice di
comportamento dei detenuti che, da secoli, regolavano sfide, tenzoni
e piccoli accomodamenti che nascevano, magari, fuori dall'Istituto e
avevano ripercussioni all'interno quelle che aveva imparato a
rispettare.
Questa
qualità di galleggiamento e di accomodamento lo avevano fatto
emergere, dopo qualche anno, come un paciere efficace. Sapeva di
dovere essere duro talvolta e di non potersi fidare di alcuno nella
esecuzione della misura da approntare per smussare spigoli e
ricomporre fratture tra i suoi compagni di sventura. E se, qualche
volta occorreva l'aiuto di qualcuno , era sempre lui a condurre
l'azione. Per questo, quando si avvicinava ai nuovi arrivati, tutti
sapevano che doveva succedere qualcosa. Se la aspettavano. Col tempo
bastò solo un suo consiglio a dirimere competizioni che potevano
trasformarsi in disdicevoli esiti.
Aveva
visto entrare decine di uomini che poi, sui giornali, venivano
additati come referenti di quartieri e “mandamenti” e aveva,
quindi, accumulato un discreto credito che, ora, poteva dimostrarsi
come una grande forza, una volta fuori e lui ne era perfettamente a
conoscenza.
La
prima avvisaglia si presentò una mattina quando una vedova gli
rappresentò una situazione che la vedeva incastrata in un meccanismo
crudele: il banchetto delle sigarette che il suo marito defunto
teneva in un cortile del quartiere era stato piano, piano
taglieggiato da un malandrino che suo marito teneva come aiutante.
Gaspare, che chiamavano Asparino, pretendeva di rifornire lui le
sigarette del banchetto e di fissarne lui il prezzo di acquisto.
Questo lasciava un troppo piccolo margine alla vedova per continuare
il suo esile commercio. E attraverso questo taglieggiamento Asparino
pensava di subentrare nella gestione del banchetto.
Salvatore,
informatosi su chi rifornisse Asparino, chiese la cortesia di dargli
le sigarette solo attraverso lui dopo averlo lasciato tre giorni a
secco.
Nessuno
provò a negare la cortesia e appena Asparino si presentò per
prendere da lui le sigarette gli rispose che, adesso, avrebbe dovuto
pagarle il dieci per cento in più. Nell'immediato Asparino accettò
e pagò le stecche al prezzo imposto ma iniziò subito la litania
delle lamentele e delle infamità
sul conto di Salvatore per il quartiere in cerca di sponsor. Grande
fu la sua meraviglia nell'apprendere da tutti i “cristiani”
interpellati che il prezzo per lui era quello ma che non era
obbligato a continuare quel commercio a quelle condizioni. Qualcuno
si occupò di spiegargli che era una misura temporanea dovuta al suo
cattivo comportamento con la vedova. Lui capì l'antifona e subdorò
una passata di legnate se avesse insistito quindi tornò da Salvatore
per assicurare di avere capito e, per rimedio, promise che da quel
giorno avrebbe preso le sigarette da portare alla vedova senza
pretendere alcun compenso e di cambiare commercio.
La
signora tentò in mille modi di ringraziare Salvatore, che assicurò
di non aver fatto nulla, ma mise in moto il tam tam dell'elogio al
comportamento di Salvatore per i vicoli di Ballarò e non solo.
Un
secondo caso si presentò nei giorni appresso: un costruttore aveva
venduto un appartamento a una coppia di modesti giovani i quali,
nell'atto preliminare dal notaio, avevano ceduto il piccolo
appartamento dei genitori di lui come acconto/caparra e si erano
impegnati con un numero infinito di cambiali in attesa dell'accollo
del mutuo del costruttore che assicurava di consegnare il nuovo
alloggio sei mesi dopo. Il risultato fu che la coppia aveva perso il
possesso del piccolo appartamento e da due anni stava in attesa del
nuovo nella casa dei genitori di lei. Ventiquattro cambiali onorate,
con interessi “allegri”, e il piccolo appartamento non erano
bastati ad avere le chiavi della casa che il costruttore non aveva
mai iniziato a costruire se si esclude lo sbancamento e la gettata
delle fondamenta in un terreno agricolo di cui lui assicurava avere
il compromesso ma che risultò essere una delle tante frottole
raccontate dal costruttore.
Salvatore
si informò su chi avesse fatto i lavori di sbancamento e la
fornitura del ferro e del cemento e trovò altri gabbati in lista di
attesa di pagamenti che venivano sempre rinviati. Quindi mise “a
ruolo la causa” tra i suoi conoscenti e si assicurò che non vi
fosse il patrocinio di alcuno sul costruttore. Poi lo andò a trovare
nel suo ufficio.
Nessuno
era presente all'incontro quindi nessuno sa cosa si dissero.
Il
fatto noto è che il costruttore fissò un incontro con la giovane
coppia dal notaio, restituì il doppio valore del piccolo
appartamento e delle ventiquattro cambiali insieme a tutte le altre
che aveva in possesso. Poi, in un incontro successivo con Salvatore,
lo pregò di accettare un piccolo appartamento in corso Tukory per
usarlo per tutto il tempo che gli fosse occorso assicurando che lui
poteva farne tranquillamente a meno.
Salvatore
aveva così risolto il problema della casa e rinforzato la sua
autorevolezza nel quartiere.
Ma
se il sole affaccia per tutti, a Palermo, c'è sempre qualcuno che si
lamenta dell'ombra eccessiva: Filippo, u zu Filippu, non sembrava
affatto gradire quelle intromissioni nel tranquillo svolgersi delle
sue giornate a Ballarò.
Il suo Ballarò.
Prima
affrontò Salvatore a quattrocchi e, preso atto, della vaghezza delle
sue risposte pensò di mettere anche lui “la causa a ruolo”. Alla
prima riunione che si presentò cercò di non mancare ma grande fu la
sua delusione quando, la sera prima, un paio di amici lo andarono a
trovare consigliandolo di evitare l'incontro l'indomani.
Non
sbraitò, come il suo temperamento gli suggeriva, ma meditò una
reazione che lo ponesse in nuova luce rispetto a chi sembrava
abbandonarlo.
Si
raccontano varie versioni su quello che accadde, una sosteneva che
fosse emigrato dal fratello in Sudafrica, un altra lo vedeva gestire
una pizzeria in Germania ma quello che è sicuro e che sulla sedia di
plastica, davanti il negozietto di alimentari, da quel giorno si vide
un nuovo soggetto che, rispondeva sistematicamente alle richieste di
chi si presentava:-” Ti farò sapere fammi consultare con lo zio
Salvatore, prima”.
Adesso
era il tempo di sistemare le cose con i cognati.
Usò
una domenica, una bella domenica di sole, per organizzare un pranzo
in famiglia. Tutti al completo: papà assiso su sedia a rotelle a
capotavola con accanto la mamma fresca di parrucchiere e tutto
attorno sorelle cognati e nipoti. Fu una bella mangiata di pesce. Ma
i cognati ricordano più le lische di quel pesce che il resto.
Avevano sentito in giro per il quartiere il crescere del consenso per
il cognato e, quando potevano, se ne avvantaggiavano per rimediare
credito e favori. Che Salvatore, puntualmente, ripianava con i
creditori che si presentavano a lui. Finita la mangiata li pregò,
scusandosi con il padre, di scendere con lui a prendere il caffè.
Prima affacciò sul balcone a fumare una sigaretta e, quando finita,
lanciò il mozzicone sulla strada. A quel segnale un auto seguita da
una moto si presentò al portone. Lui, sceso con i cognati, li invitò
a salirvi. Le legnate iniziarono subito: seduti dietro prendevano
schiaffi davanti da Salvatore e dietro da un armadio vestito da
cristiano. Quando arrivarono a Piano dell'Occhio, su per la montagna
che da sud sovrasta Palermo, in una vasta pianura piena di pietre e
vacche raggrinzite erano così malridotti che Salvatore non ebbe
difficoltà a spiegare cosa avrebbero fatto dall'indomani.Entrambi
prima riottosi ma poi, forse all'apparire di due badili presi dal
cofano dell'auto, si mostrarono comprensivi della scelta di andare a
lavorare nella pizzeria del cognato, in Germania, assicurando che
avevano capito la situazione. Da allora il fratello di Salvatore
manda gli stipendi alle sorelle e ogni sei mesi i rispettivi mariti
che hanno deciso di portare con loro le famiglie. La madre, tempo
dopo, disse a Salvatore che i generi erano brave persone e che
andavano presi per il giusto verso.
Salvatore
convenne.
I
lunghi anni passati nelle celle di mezza Italia lo avevano abituato a
vivere da solo anche in situazioni di promiscuità estrema. Aveva
imparato a sorridere con apparente condivisione delle battute e dei
comportamenti più stupidi e scurrili dei compagni di cella o di
sezione. Sapeva che era il prezzo da pagare per una integrazione con
soggetti non sempre avvezzi alla civile convivenza e sempre alla
ricerca di una ostentata prepotenza.
Ma
la sensibilità conquistata con anni di riflessioni e osservazione
dei comportamenti lo aveva abituato a scorgere, negli sguardi di
alcuni, i suoi stessi patemi e le sue stesse sofferenze. Il tempo,
poi, lo aveva posto nelle condizioni di organizzare, con una finta
casualità, la composizione della cella. Che vedeva sempre un paio di
F.P.M. ( Fine Pena Mai – ergastolo ) e il resto di detenuti dei
quali avevano “buttato le chiavi” come si dice di quelli con
lunghe pene detentive. Aveva, in questo modo, disattivato
arrabbiature e rivalità con soggetti che dovevano scontare pochi
anni e che erano di turbativa a chi doveva abituarsi all'idea di una
vita passata in restrizione. Questo, poi, dava autorevolezza alla
cella che vedeva individui pronti anche all'omicidio perché alla
fine non è che potessero comminare altri anni di carcere nel caso
fossero stati scoperti e consigliava cautela a chi avesse voluto
attaccare uno di loro. Quindi per l'affetto, che veniva visto come
debolezza, non c'era alcuno spazio all'interno della struttura.
Semmai una sua sublimazione carnale che portava soggetti più deboli
a trovare riparo e protezione in quanti cedevano all'idea del
possesso di un corpo.
Ora,
libero e forte, a parte l'affetto filiale, Salvatore si trovava monco
di un espressione necessaria alla vita quotidiana. Non immaginava
assolutamente la possibilità di amare qualcuno. Semplicemente non
dava un valore alla parola “affetto” se non rivolta ai genitori.
Che , anche qui, aveva una valenza di rispetto verso chi lo aveva
messo al mondo. Poi c'era il Rispetto verso chi, ai suoi occhi, si
imponeva con un comportamento o una decisione dura ma giusta e
l'ammirazione per chi sapeva dirigere e gestire un gruppo di persone
con onestà e correttezza. E durezza quando necessario.
In
questo tessuto caratteriale ebbe notevoli difficoltà a inserirsi
Rosy, la titolare del panificio dove ogni mattina Salvatore comprava
il pane fresco per il pranzo e, la sera, quello per la cena. Era un
balletto di ritardi alla cassa che vedeva Rosy ritardare lo scontrino
a lui per simulati conteggi al cliente precedente che gli
permettevano un minuto in più di presenza al cospetto di quel duro e
freddo uomo di cui, attraverso i panettieri, era riuscita a conoscere
tantissime cose. Ma otteneva lo stesso interesse di una farfalla che
svolazza attorno un orango alle prese con le sue liane. Battutine,
convenevoli e piccole profferte verbali sembravano non raggiungere
minimamente l'attenzione di Salvatore. Non poteva sapere che lui,
attento a ogni sfumatura di chiunque intercettasse il suo cammino,
aveva preso informazioni su Rosy e la famiglia. E la prova che non
avesse cambiato fornaio, presumeva, che fosse un messaggio di
attenzione sufficiente per dirle che accettava le sue attenzioni. Non
aveva nessuna vergogna del suo passato ma non riusciva a condividerne
alcun aspetto con chicchessia. Questa, e solo questa, era la molla
della sua scontrosità. Un giorno che la fila alla cassa era più
lunga del solito si trovò a scrutarla per qualche minuto in più e
quello che vedeva lo scopriva, stranamente, contento. Sarà stato il
nuovo taglio corto e sbarazzino o il fatto che non avesse trucco o
monili appariscenti ma si trovò investito da un sottile alito di
simpatia e, giunto alla cassa, le chiese a bruciapelo se avesse mai
mangiato il pesce a Sferracavallo.
Finì
di pronunciare la frase e si rese conto della stupidaggine appena
detta a una donna di 39 anni vedova da 12, ma ormai s'era lanciato...
Rosy
avvampò e rispose che era curiosa di conoscere il motivo della
domanda. Salvatore si sarebbe rosicato i gomiti per la sua goffaggine
ma, superatala, rispose che era un suo vecchio sogno passare due ore
in riva al mare davanti una frittura di pesce. Quindi l'appuntamento
fu fissato per la domenica successiva alle 12 sotto casa di Rosy.
Aveva
un appuntamento alla Vucciria con un paio di amici dei suoi amici che
chiedevano di vederlo. Passò a prendere Pinuzzo che era la sua ombra
ormai da mesi e, essendo alto più di due metri, di ombra ne faceva
assai. Passarono per lo Zen dove un amico aveva chiesto di
incontrarlo e sentite le lamentele di quest'ultimo su un giovane di
Ballarò che s'era mostrato sgarbato e sprezzante in un battibecco
verbale, assicurò la sua mediazione. Pinuzzo prese nota mentalmente.
Poi si recarono alla Vucciria in una piccola osteria che aveva due
tavoli in un angolo sempre disponibili per lui e altri che li usavano
per incontri riservati. Come al solito si sedette, spalle all'angolo,
in uno dei due tavoli con Pinuzzo alla sua destra e con il corridoio
libero. Alla sua sinistra, al secondo tavolo, v'erano già le persone
da incontrare. Come al solito fece un cenno di saluto con gli occhi
molto discreto e si guardò intorno aspettando che l'oste venisse a
comunicargli che gli altri ospiti dei vari tavoli erano innocui e
tutti conosciuti. Aveva da tempo imposto a tutti i suoi amici il
bacio di saluto solo se al riparo da chiunque e tutti convennero che
era più igienico viste le cimici e le telecamere che avevano invaso
Palermo da anni. Come al solito prese una pasta alla grassa e mezzo
vino bianco e, tra un boccone e l'altro, con indifferenza e sottovoce
conversava con i commensali dell'altro tavolo. Nessuno alla fine del
pranzo avrebbe detto che c'era stato un incontro da due
capo-mandamento nella mezz'ora precedente in quella osteria. Ma si
era chiuso un accordo per un carico di sigarette proveniente
dall'Albania che sarebbe giunto con la prossima luna mancante via
calabrie. S'era convenuto di quantificare le quote di impegno
economico per le famiglie che partecipavano al carico, le quote di
guadagno e l'incarico di smistamento. S'era poi convenuta la risposta
da dare a un paio di cugini che da settimane avevano sotto mira le
farmacie dei rispettivi mandamenti e continuavano a taglieggiarle con
continue rapine flash. E in ultimo aveva saputo che la domenica
successiva lui e altri quattro amici erano invitati da un esponente
del Provinciale a pranzo a Caccamo. Poi s'erano alzati ed erano
usciti con dieci minuti di sfalsamento.
Caccamo
era importante ma Sferracavallo era un impegno preso.
Alle
16.00 aveva un appuntamento con un consigliere comunale che gli era
stato fissato da un suo caro amico e, giunto sotto la segreteria del
politico, disse a Pinuzzo di aspettarlo in sala mentre lui spendeva
due parole con il Consigliere. Questi lo aveva ricevuto in un salone
organizzato ad ufficio con tavolo sei posti in mogano e salottino due
poltrone e divano in fondo al salone. Un enorme libreria colma di
faldoni attraversava tutta una parete interrotta solo da una grande
finestra velata da una tenda.
C'erano
sei persone nei vari punti del salone e il Consigliere lo invitò a
sedersi per ascoltarlo. Lui tese la mano con cortesia, si presentò e
ricordò il nome dell'amico comune che lo aveva introdotto poi, senza
sedersi, lo invitò a scendere in strada per prendere un caffè al
bar. Il modo in cui lo disse, quello in cui, per tutto il tempo, lo
fissò e la perentorietà dell'invito mise in imbarazzo il politico
che tergiversò. Salvatore lo ascoltò con bonomia e, dopo, ripetette
l'invito. Questa volta il politico non ebbe forza di controbattere
e, date rapide istruzioni alle persone del suo entourage, si avviò
alla porta con Salvatore. Pinuzzo uscì poco dopo a debita distanza.
In
ascensore Salvatore disse poche parole:- “Onorevole sono qui a
ricordarLe il suo impegno preso in campagna elettorale. L'amico che
Le avevo segnalato è stato all'Acquedotto come concordato ma il
Presidente gli ha risposto di presentare un curriculum e aspettare
comunicazioni. Ora, passati sei mesi, la comunicazione gliela faccio
io: lunedì l'amico sarà chiamato dall'ufficio del personale o Lei
presenterà, spontaneamente, le dimissioni.”
Il
Consigliere disse che il Sindaco era uno stronzo, che l'assessore era
un stronzo e che lui aveva fatto tutto il possibile. Ma Salvatore
ribatté che non era importante, a questo punto, l'assunzione
dell'amico segnalato quanto la possibilità che lui passasse per
stronzo e che questa cosa non era contemplata tra le possibili.
Poi
lo consigliò, vista la sua incapacità di mantenere la parola data,
di preparare le sue dimissioni. Il tutto si svolse in pochissimi
minuti tanto, che giunti al piano terra, Salvatore spinse il bottone
del quinto piano per risalire. Il gelo calò nella cabina e un
tentativo di replica del politico fu fermato da un dito poggiato
delicatamente sulle sue labbra seguito da un invito al silenzio. Poi
le porte dell'ascensore si aprirono e il politico ne uscì.
Fuori
dal portone, a piano terra, lo aspettava Pinuzzo.
La
serata proseguì con un giro discreto e articolato per le attività
della borgata. Dove lasciava un saluto e dove si fermava per
consegnare una busta con il necessario per la spesa settimanale a un
ragazzo con l'incarico di consegnarlo alla rispettiva madre. Ovunque
passasse c'era armonia e anche le disgrazie più amare trovavano
lenimento. Era il suo modo di interpretare il ruolo che le persone,
memori di “u zu Fulippu” e delle sue angherie, non potevano non
apprezzare. Si fece l'ora del pane caldo. Palermo è una città
povera ma in ogni via si troverà sempre, a tutte le ore, un
infornata di pane fresco. Contrito dovette dire a Rosy che l'invito
si trasformava in un gelato pomeridiano per 17.00 ma lei non gli
dette tempo e modo di giustificarsi: accettò felice che comunque
l'invito c'era. L'indomani mattina trovò una cassetta di liquori e
dolciumi vari al bar dove, ogni mattina, prendeva il suo terzo caffè
della giornata. C'era un biglietto dentro una bustina chiusa, lo
aprì. Diceva:-” Zu Sarvaturi non potrò mai sdebitarmi del Suo
interessamento. Mi ha chiamato ieri sera, alle 18.30, un tizio degli
uffici dell'Acquedotto e mi ha indicato i documenti che devo portare
fra tre giorni per l'assunzione. Sempre a Sua disposizione. Per
qualunque cosa. Firmato F.G”
Un
altra giornata iniziava e con essa la prova che la politica non è
distratta: va seguita con attenzione.
Tre
anni erano passati dall'ultima volta che Salvatore aveva avuto
contatti con la giustizia. L'ultimo contatto era stato con il
secondino che lo aveva accompagnato al portone di Ucciardone. Molte
cose erano successe: Rosy, adesso, era sua moglie. Con orgoglio la
sera del matrimonio gli disse che era felice di essere la signora
Benigno. Salvatore era fermamente collocato in una società
sotterranea, parallela a quella che viveva, alla luce del sole, con
le sue speranze e i suoi affanni quotidiani. Aveva una casa decorosa
e una vita intensa. Con grande disappunto, ma con freddo distacco,
stava seduto di fronte al giudice che lo aveva convocato.
-
Lei è il sig. Salvatore Benigno di anni 53, residente in corso
Tukory a Palermo?
- Se rispondo di no, che fa mi lascia andare? Rispose con ironia.
- Sig. Benigno guardi che non è nella posizione di scherzare se è qui, davanti a me, comprende che è per motivi seri, vero? Molto seri.
- Vede sig. giudice la mia vita è stata costellata da giorni seri. Non ricordo un giorno buffo o vissuto con leggerezza. Ma posso sapere di cosa sono imputato?
- Di niente. Ancora. Deve solo rispondere a qualche domanda.
- Sono a Sua disposizione. Replicò.
- Bene deve solo dirmi come ha fatto un ergastolano, appena uscito di galera, senza titoli e senza capitale a trovarsi, in tre anni, padrone di una impresa di costruzioni, di una pizzeria, di un officina con assistenza alla casa madre e di innumerevoli interessi.
- Vede signor giudice partiamo male. Quelli che Lei ritiene titoli, e penso si riferisca ai titoli scolastici, a me non servirebbero a nulla. I miei titoli sono la correttezza, la serietà e la fermezza di carattere. E, mi creda, sono al livello universitario perchè conseguiti in un ambiente che non ti regala nulla. Non esiste una scuola privata che le fa i tre anni in uno. Quanto al capitale, non credo che tutte le imprese nascano dai soldi che possiede chi le crea quanto, piuttosto, dalla fiducia che la persona ha nel suo giro di conoscenze. E dalla gentilezza dei direttori di banca che credono nelle sue capacità.
- O nella forza della sua intimidazione? Lo interruppe il giudice.
- Signor giudice allora è questa l'accusa? Io intimidisco? E mi dica: Lei da chi è intimidito?
- Da nessuno. Rispose prontamente il giudice. Conto solo sulla mia rettitudine e vado a testa alta.
- Vede? Un uomo giusto non teme nessuno. Se qualcuno teme o è debole o è nel torto. Ma non credo che a lei interessi questo aspetto della vicenda. Lei vuol sapere dei miei interessi economici vero? Quindi le spiego semplicemente che un amico, un costruttore, in difficoltà economica ha ritenuto di coinvolgermi nella sua attività. Ho esaminato i punti deboli del suo operato e ho chiesto che, per qualche tempo, stesse in ufficio un mio nipote, Franco, figlio di mia sorella. Dopo tre mesi il mio carissimo amico, ha ritenuto di compensare il rientro di certe somme che da anni non riusciva a incassare e mi ha chiesto di entrare in società. Ho pensato di intestare le quote della società a mio nipote che adesso lavora con lui.
- Stessa cosa è accaduta per la pizzeria dove un amico, in rosso perenne, rischiava di chiudere una splendida attività a causa di tasse e, forse, dell'incapacità di gestire i fornitori e le scadenze. Li, ho messo l'altro mio nipote, Nino, e ho passato qualche settimana dentro il locale che adesso va bene. Anche lui ha ritenuto, visto che era prossimo al fallimento, di ricambiare l'impegno assunto nell'aiutarlo con l'ingresso di Nino nella società.
- Inutile ripeterle che la stessa cosa è accaduta con l'officina. Qui ho dovuto chiedere aiuto a un mio fratello, da anni in Germania, di inviarmi suo figlio. Sa, Pietro, mio nipote è laureato. E' ingegnere e, in banca, ho avuto meno problemi a fare finanziare l'officina.
- Pietro, in questo caso, avendo contrattato personalmente la gestione dal marchio della casa madre, in Germania, ha chiesto di essere socio al 50%. Adesso, devo dire, che l'attività va molto bene. Lo sa che hanno la gestione dell'autoparco regionale di diversi assessorati? Tutto in regola, si intende.
- Come vede signor giudice niente avevo appena uscito dal carcere e niente ho adesso. Solo l'affetto dei miei nipoti e il rispetto dei loro soci.
- Allora come spiega le innumerevoli lettere anonime che raccontano un altra verità? Una verità fatta di minacce e vessazioni? Chiese il giudice.
- Infamità signor giudice. Solo infamità e lo dimostra il fatto che sono scritte sul fango: lettere anonime. Replicò Salvatore.
- E poi se solo una delle infamità contenute in quelle lettere fosse vera io sarei qui a rispondere alle sue domande o, invece, dentro una cella a scontare i miei, presunti, errori?
- Guardi signor Benigno lei è sotto la mia personale osservazione e le consiglio di essere meno temerario. Volevo, con questo incontro, significarle la mia disponibilità ad ascoltarla con la massima attenzione garantendole incolumità, se necessario, per lei e i suoi familiari. Non crede che sia giunto i momento di affidarsi alla giustizia ordinaria?
- Vede, dottore, se avessi bisogno di aiuto o ritenessi di dover chiedere tutela sarei venuto io a cercarla e non avrei aspettato il suo gentile invito. Ma, credo, che siamo fatti della stessa pasta: “Conto solo sulla mia rettitudine e vado a testa alta.” mi ha appena detto. E vale anche per me. Nessuno dei miei amici o conoscenti ha mai avuto modo di lamentarsi di un mio comportamento. Nessuno ha reclamato su mie azioni o decisioni. E alcuni miei amici sono in Comune, alla Regione e in Parlamento, non sto parlando di bottegai. Anche se devo dire che, quasi sempre, l'onestà e la serietà di un bottegaio non è moneta di scambio nella politica. O forse è proprio questo il problema: troppi ex bottegai disonesti vengono selezionati per stare in politica. Ma questo è un altro discorso.
- Comunque sono contento di essere sotto la sua “protezione” ma, mi creda, sono soldi sprecati inutilmente quelli che deve utilizzare per me. Li usi per altre indagini. Poi, dottore, faccia come crede.
- Per me può andare, Salvatore ma resti a disposizione. Chiuse il giudice lasciando una spada di Damocle pendere sulla sua testa.
- Sono onorato di averla conosciuta signor giudice ma le assicuro che non avremo modo di rivederci.
Appena
tornato a casa chiamò Pinuzzu e gli disse di prepararsi il
necessario per stare fuori una settimana.
Avvertì
Rosy che sarebbe mancato per qualche giorno e che doveva recarsi dal
fratello in Germania.
Pinuzzu
condusse l'auto fino al luogo indicatogli, la Piana dell'Occhio,
appena fuori Palermo dove c'era un locale caratteristico che serviva
pane caldo, facce di vecchia,vino e uova bollite.
Sedettero
a un tavolo prossimo a un altro dove stavano due persone intente a
intingere uova bollite in olio e sale.
Con
noncuranza descrisse, sottovoce, l'incontro con il giudice ai
commensali dell'altro tavolo e spiegò che sarebbe stato meglio
lasciare per un po la Sicilia ma che per ogni evenienza Pinuzzu
sarebbe stato a disposizione e che sarebbe stato sempre in condizione
di contattarlo. Il più anziano dei due rispose, guardando in altra
direzione, che avrebbe dovuto incontrare una persona in Svizzera,
prima di andare in Germania, e dette indicazioni su cosa dirgli e su
dove riparare appena arrivato a destinazione.
Da
anni tanti amici avevano creato una rete di attività nel settore
della ristorazione in Germania per cui era più facile trovare riparo
e ospitalità li che non in Sicilia. Poi la rete parallela di campani
e calabresi offriva un modo sicuro per scomparire quando era
necessario.
E
Salvatore sapeva che l'interessamento del giudice preannunciava una
retata imminente. Come sapeva che in questi casi fare “scruscio”
con infiniti arresti esponeva gli anelli della catena più deboli
alla paura del carcere e li disponeva alla collaborazione con la
giustizia.
Aveva,
quindi, pensato di trasferirsi in Germania e, poi, di mandare a
chiamare Rosy.
Le
attività erano ormai rodate e andavano a pieno regime. Pinuzzu
conosceva esattamente il modo di gestire ogni aspetto del traffico di
sigarette di contrabbando, sua vera attività, come conosceva la sua
avversione con il traffico degli stupefacenti e la sua reazione se
avesse trasgredito. Ma, ormai, vedeva avanzare sempre più
spregiudicate giovani leve che ottenevano immensi guadagni da quel
commercio.
Sapeva
di non avere la forza per impedirlo. Ne lui ne quanti, ancora, vi si
opponevano.
Sei
mesi, quasi, erano passati dal suo ingresso in Germania. A parte i
tre giorni iniziali in Toscana e la parentesi dei dieci giorni in
Belgio in attesa di avere documenti e nuova identità che lo
mettevano al riparo da indagini e sospetti. Ora era un tranquillo
uomo di mezza età emigrato da trent'anni in Belgio dove aveva
lavorato in una pizzeria come uomo di fatica e questo giustificava la
sua modesta cultura e l'incapacità d'avere mai imparato il francese.
Era stata un idea del suo amico tipografo per spiegare il paradosso
di un uomo emigrato in Belgio che conosceva solo il dialetto del
paese suo.
Rosy
da qualche settimana era stata assunta da suo fratello nel ristorante
come aiuto cuciniera e l'aveva vista solo due volte. Lui lavorava,
ufficialmente, a 120 chilometri di distanza in un forno pasticceria.
Sapeva che l'interpol era sulle sue traccie e la pista della moglie
era fin troppo semplice da seguire ma la spiegazione che avesse
trovato riparo dal cognato, in Germania, era abbastanza verosimile.
Pinuzzu
provvedeva a tenere i contatti con i nipoti e a controllare le
attività che gli aveva affidato. I soci erano, tutto sommato, ancora
psicologicamente sotto pressione per tentare colpi di testa o
furbizie inutili e poi quella che loro credevano cresta sui guadagni
lui la riteneva una giusta compensazione per il trambusto che ogni
tanto gli investigatori creavano in occasione di ispezioni.
Purtroppo
portava pure notizie di sparizioni e sparatorie in cui, con cadenza
settimanale, cadevano uomini a lui riferibili o comunque sotto
l'egida dei suoi amici dei vari mandamenti. Un paio di carichi di
sigarette erano saltati durante il trasporto nelle calabrie e Pinuzzu
sosteneva che qualcuno della filiera stava tragediando ma che era a
un punto morto delle indagini su chi fosse l'infame. Non voleva dirlo
ma traspariva la sua richiesta di un aiuto sul campo. Cosa fuori
discussione, per il momento.
Poi
Salvatore gli consegnava i pizzini occultati in buste di carta con
camicie e magliette varie e si raccomandava di portare i suoi saluti,
con i regali, ai suoi contatti a Palermo. L'idea di farsi fare delle
buste di carta dal suo amico tipografo in Belgio, durante il suo
soggiorno, con uno spazio sul fondo sufficiente a contenere un
pizzino ripiegato stava, ancora, tornando utile. La prova era stata
l'ispezione delle buste da parte della polizia durante un posto di
blocco al suo ingresso in Italia. Avevano smontato la Fiat Uno pezzo
per pezzo ma l'ispezione era risultata negativa e lui sapeva che
l'occasione dei due viaggi in Germania di Pinuzzu era troppo ghiotta
perché il giudice non ne approfittasse.
Ora
doveva, necessariamente, organizzare una discesa a Palermo.
I
documenti in suo possesso lo identificavano come un originario di una
piccolissima frazione del comune di Resuttano in provincia di
Caltanissetta. Il suo contatto in Belgio assicurava che il nominativo
era di un suo compaesano emigrato e poi scomparso in Argentina
decenni addietro. E, aggiungeva, che era sicuro non avesse alcun
parente al paese d'origine. La copertura lo teneva relativamente
tranquillo. I dieci chili che aveva perso durante il soggiorno in
Germania e un taglio molto ordinario dei capelli con il nuovo pizzo e
baffi lo facevano sembrare trasfigurato a detta della stessa moglie.
Quindi
decise di scendere con un pullman che faceva scalo a Caltanissetta.
Sapeva che le Madonie erano a un tiro di schioppo e l'aver scelto di
non commettere reati pesanti in quella zona aveva fatto sì che fosse
perfetta per il rifugio di quanti non volevano contatti con la
giustizia. La risposta al pizzino inviato nei giorni addietro era
arrivata e indicava l'indirizzo in un paesino delle Petralie dove
avrebbe trovato, in una masseria, rifugio e ogni conforto. Ormai con
la guerra in corso tra palermitani e corleonesi era diventato
difficile capire chi era tuo amico e chi era pronto a venderti alla
prima occasione. Ma avere un fratello di sangue e di mille battaglie
lo rendeva sicuro e accettò l'indicazione.
Appena
giunto alla masseria fu accolto da una faccia amica che sapeva di
conoscere. E quando questi si presentò non ebbe più dubbi. Era
Ninetto un bracciante agricolo con cui aveva passato qualche anno a
S. Vittore in occasione delle sue frequenti trasferte nelle carceri
italiane nei suoi primi dieci anni di detenzione. E, Ninetto, chiarì
subito che la promessa di vent'anni prima di potersi disobbligare
dell'aiuto ricevuto durante uno screzio in cella che lo avrebbe visto
soccombere in assenza dell'autorità di Salvatore, aveva adesso
occasione di potersi realizzare. Era a sua completa disposizione. Lo
rassicurò circa la donna, albanese, che lo avrebbe accudito per
tutto il tempo che egli avesse deciso di passare nella masseria e
chiese di cosa avesse bisogno. La risposta fu che non serviva nulla
se non un passaggio per Palermo dove, in piazza Politeama, l'indomani
alle 12:00 aveva un appuntamento.
Ninetto
assicurò che lo avrebbe accompagnato lui personalmente con il suo
furgone. C'era un telefono nella cucina che fungeva da soggiorno e
Salvatore simulò un malessere passeggero per cui chiese di poter
dormire nel divano che Ninetto sistemò immediatamente. Appena buio
consumarono una cena a base di olive, pecorino e cicoria con un vino
di cui aveva perso la memoria e finse di addormentarsi sul divano, in
soggiorno.
L'indomani
alle sette scesero verso il mare dirigendosi a Palermo senza passare
per l'autostrada.
Si
fece lasciare al porto e chiese di essere ripreso alle 13:00.
poi,
per vie laterali si diresse verso via Dante dove, al terzo piano
abitava suo nipote Franco e da dove si aveva una perfetta visione
della piazza prospiciente al Politeama.
Stette
a controllare il luogo dove aveva indicato a Ninetto che si sarebbe
svolto l'incontro ma non vide traccia di alcuna presenza ne di sbirri
ne di facce conosciute. Spiegò a Franco che si sarebbe fatto
risentire ma di non fare menzione con alcuno di quell'incontro e si
diresse verso il porto dove fu raccolto da Ninetto.
Ora
era sicuro dell'affidabilità di Ninetto: non aveva usato il telefono
per avvisare nessuno durante la notte e non aveva indicato ad alcuno
il luogo dell'appuntamento. Decise di premiare la sua fedeltà e
chiese di essere accompagnato a sferracavallo dove consumarono un
pasto a base di pesce e odore di mare.
Aveva
certezza di trovare da Franco lo scatolo che gli aveva consegnato un
anno addietro e, adesso, si sentiva più sicuro avendolo trovato
senza segni di apertura e, cosa più importante, con il contenuto al
suo posto. Sapere di avere due automatiche perfettamente oliate e il
denaro sufficiente a vivere per un anno lo rendeva coperto da alcune
preoccupazioni.
Chiese
a Ninetto di fare il pieno ma di passare da Carini prima di
indirizzarsi verso le Madonie.
Conosceva
a memoria i sentieri che si dipanavano per le campagne di Carini in
direzione di Torretta e sapeva che qualcuno lo aspettava in una
stalla con annesso caseificio. Giunti a pochi metri dal muro di
confine lasciò una pistola a Ninetto e mise l'altra nella cintola.
Poi si indirizzò verso il portone della casupola annessa alla
stalla. Precauzioni non necessarie, fortunatamente, l'anziano che lo
aspettava si fece trovare solo e con un sorriso negli occhi che non
ammetteva dubbi. Si abbracciarono con vigore e fecero il punto della
situazione. I “peri 'ncritati” come venivano definiti i
corleonesi avevano sconvolto ogni equilibrio: facendo leva sui
giovani picciotti con denaro facile, frutto del commercio degli
stupefacenti, e con lupare bianche nel caso dei più riottosi o
omicidi plateali in pieno giorno con rinvenimento dei corpi
incaprettati in piazze specifiche, avevano insinuato il terrore e il
rispetto di intere schiere di picciotti fin li fedeli alle famiglie
storiche che li avevano visti crescere. Nessuno aveva più rispetto
di nessuno.
Era
un continuo ostentare orologi d'oro, auto sfarzose e disprezzo per i
valori fondanti di una comunità che aveva retto per secoli. I cugini
americani interpellati chiedevano solo di rimettere pace tra tutti
per evidenti ragioni commerciali: erano i primi clienti di alcune
droghe e e primi fornitori di altre.
Onore,
rispetto, dignità, parola erano diventati in un attimo parole vuote.
Nessuno
era più al riparo di un codice mai scritto ma sempre osservato:
donne, bambini, divise e giudici non vanno mai toccati. Palermo era
diventata Beirut e, cosa più ripugnante, i metodi sud americani di
gestione del terrore erano stati calati pari pari nel quotidiano.
Messa così era una situazione senza via d'uscita. Salvatore chiese
cosa ne pensassero i napoletani e, sopratutto, i calabresi ma la
risposta fu agghiacciante: nessun contatto fin quando la situazione
non fosse stata riportata a controllo totale. I siciliani, in altre
parole, vedevano svanire una supremazia psicologica che li aveva
visti decisori finali per tanti decenni. Allora Salvatore chiese cosa
ne pensassero gli amici di Roma. Ma la risposta lo lasciò di stucco:
lo Stato aveva bisogno di pace e controllo del territorio. Chiunque
lo assicurasse diventava lo Stato. Parola di numero uno. Quindi i
corleonesi erano lo Stato adesso, pensò.Chiese, quindi, di quanti
nella migliore. Quindi o si scappa o si resta latitanti o si
aspettano i ferri. Non c'è via di scampo. E gli avvocati consigliano
di scomparire. “Sti cornuti con tutti i soldi che hanno arraffato
in questi anni...” aggiunse. Salvatore si congedò e chiese di
aggiornarsi a tre giorni dopo. Appena tornato nel furgone disse a
Ninetto di tornare a casa.
Ora
due automatiche ben oliate e il denaro per vivere un anno non gli
parsero più una sufficiente sicurezza di fronte ai giorni che si
preparavano. Salvatore sapeva che c'era una possibilità ulteriore,
anche se negata da tutti, che aleggiava sopra la testa di quanti si
ritrovavano nelle varie alleanze: la delazione. La tenuta di un
ordine così ampio e diffuso era garantita dalla omertà che
vincolava tutti gli appartenenti alla organizzazione e dal sottinteso
impegno a regolare all'interno ogni questione. A Palermo come a New
York e dovunque, nel mondo, si trovassero amici legati dal patto di
fiducia reciproca valeva questa regola aurea. Ora, però, le notizie
portavano messaggi inequivocabili. Il sequestro del suocero di un suo
amico che era sotto la protezione del “Principe” , ovvero l'uomo
dell'ultima parola a Palermo per tanto tempo, oltre ad intaccarne il
prestigio annunciava che nessuno era più intoccabile. La grossa
esposizione economica che aveva visto negli ultimi tempi i
palermitani traghettare montagne di soldi verso Milano e in mani di
imprenditori abilissimi ma non associati non indicava nulla di buono.
I continui tentennamenti del “Banchiere volante” nello spiegare
dove erano finiti i soldi inviati in America segnalavano che la
politica e il Vaticano avevano smesso di porre il loro sigillo sugli
affari in campo internazionale. La lunga stagione dei sequestri di
persona perpetrati al nord che avevano fatto forti i corleonesi e il
loro capo, che appariva beffardo con il suo sigaro sempre tra le
labbra durante le udienze dei processi, non sembravano più così
rassicuranti per quanti vivevano all'ombra dell'immunità garantita
che egli assicurava o, quanto meno, prometteva.
Quelli
che erano rimasti liberi a Corleone non sembravano proprio aspettare
indicazioni dalla cella in cui era detenuto, anzi, non perdevano
occasione per fare “scruscio e batteria”. E Salvatore sapeva cosa
nascondevano quegli atteggiamenti eclatanti. Nelle ultime due
riunioni aveva avvertito come un gelo che serpeggiava tra uomini fin
li sempre sicuri e solidali. Qualcuno non parlava e qualcun altro
parlava troppo. Segno di mutati, inconfessabili, accordi che nulla di
buono lasciavano presagire. Ora sapeva che occorreva agire ma non
aveva certezza su alcuno così come sapeva che, vista la sua
intransigenza, sarebbe stato l'ultimo a essere cooptato nella nuova
direzione che si stava imponendo. E sapeva che in tanti avrebbero
preferito non confrontarsi con lui preferendone l'eliminazione.
Tutto questo portava gli uomini a innalzare il clima di violenza per
potersi distinguere ma, intanto, creava solo orfani e vedove. La
potatura è un arte delicatissima: se la usi con intelligenza i
frutti saranno migliori e più numerosi, se eccedi la pianta muore.
E
quando non puoi eliminare chi ti ha ferito diventa facile usare le
divise per ottenere vendetta.
Quindi
la delazione diventa arma per chiudere pendenze ma, allo stesso
tempo, costituisce la falla che affonderà la nave. Sapeva che non
era più tempo di chiacchiere e metafore raffinate per far ragionare
i più riottosi e che occorreva, adesso, il pugno duro. Tutto
questo passava per la sua testa mentre lentamente si annacava sul
patio della casa colonica sopra un accogliente sedia a dondolo,
quando Ninetto lo invitò a sedersi a tavola per la cena. Aveva
chiesto capretto a “sciusciarieddu” ( pezzi di carne di capretto
in tegame conditi con una fricassea di rossi d'uovo e succo di limone
e menta ) considerato quanto, Ninetto, ne aveva decantato la bontà
durante il viaggio di ritorno da Palermo. E la donna anche se
albanese mostrava di essersi integrata perfettamente con la cucina
madonita. Dopo cena fecero un salto a Gangi, paesino arroccato su un
monte che ne ha sostituito la vetta in un dedalo di viuzze e paesaggi
di una bellezza che mozza il fiato, per incontrare una vecchia
conoscenza. L'ospite lo accolse in un vano che ricordava il riparo di
un asino o un mulo. Aveva l'abbeveratoio e la mangiatoia
caratteristiche con un anello di ferro ove legare l'animale. Ma
l'assenza di paglia a terra e la condizione perfettamente netta del
locale ne indicava l'uso passato ma non presente. Sopra si
innalzavano due altri piani di casa da cui si sentiva provenirne il
ciarlare di donne e risa di bambini. Quando l'anziano, con un cenno
muto degli occhi, ottenne assenso da Salvatore circa la confidenza da
dare a Ninetto spostò i vari strati di incannato che erano
sovrapposti sulla parete alle sue spalle e comparve un piccolo varco
ad arco. Con la lucerna ad olio che illuminava il passo si
incamminarono nel corridoio che parve non finire mai. Dopo molti di
metri di roccia scavata si trovarono di fronte a un portoncino antico
con un serramento che pareva arrugginito da secoli ma che mostrò la
sua perfetta oliatura permettendo l'accesso all'ampio salone. Un
gigantesco lampadario costituito da due travi di legno appaiate da
barre di ferro che mostravano, ancora, le docce dove erano, un tempo,
posizionate le candele ma che adesso ospitavano dodici lampadine
esili e poco illuminanti attirò l'attenzione di Salvatore. Tanto da
non avvedersi che, nella penombra della stanza, v'erano tre persone
sedute al tavolo, anch'esso monumentale, posto sulla verticale sotto
al lampadario. Sedie ai lati e addossate alle pareti, una credenza di
quercia simile a quelle viste nelle sacrestie di vecchie chiese e
nulla più arredavano l'ampio salone.
L'uomo
seduto a capo tavola invitò l'anziano accompagnatore a portare di
sopra Ninetto per fargli assaggiare la ricotta calda col siero.
Quindi furono soli. Salvatore abbracciò l'uomo a capo tavola e gli
furono presentati gli altri due che non aveva mai visto ma che sapeva
essere i capi mandamento di Geraci e Polizzi Generosa. Tra tutti
v'era un rispettoso contegno che dopo il bicchiere generoso di vino e
un pezzo di formaggio si trasformò in una sorta di vecchio
cameratismo. Era proprio questo che aveva affascinato da sempre
Salvatore: il sapere che tra “punciuti” ( pratica attraverso la
quale con un ago si punge il polpastrello dell'iniziando per prestare
il giuramento di affiliazione ) ci si poteva abbandonare in
conversazioni e atteggiamenti scevri da circospezioni guardinghe.
Quando, finalmente, si arrivò attraverso un tango di allusioni e
metafore al problema cruciale e i tre compresero che Salvatore non
era venuto a proporre affari o commerci ma a valutare le rispettive
posizioni rispetto ai “viddani” di Corleone, allora, la
conversazione si irrigidì in tanti “se” e troppi “ma”:
segnale che il problema s'era posto da tempo e aveva trovato una
soluzione. Salvatore quindi diluendo in un discorso vago e
ricognitivo di una situazione della quale voleva dare a vedere di non
conoscere nulla, chiuse il suo intervento ponendo l'accento sul fatto
che trent'anni di galera lo avevano stancato e che quindi stava
valutando di uscire di scena ma di volere, nel contempo, assicurare
comunque, la sua lealtà ai segreti di cui era depositario nei
confronti di quanti, con lui, vi avessero partecipato. Questo rilassò
il capotavola che propose un brindisi ai vecchi tempi e un augurio
per quelli nuovi. Quindi congedò i suoi ospiti e rimase da solo con
Salvatore.
-”Salvatore
per tanto tempo ho pensato che il comandare è meglio del fottere e a
questo ho preparato mio figlio come tanti amici hanno tentato di
fare. Ma, adesso, di fronte a questi banditi non sono più sicuro che
sia stata la scelta più saggia. Vengono a fottermi i picciotti
portandoli in giro macchine che io nemmeno per il matrimonio di mia
figlia penserei mai di usare. Li colmano di regali e denaro facile.
Li invitano a fare la bella vita a Milano nei nightclub dove li
pompano a cocaina. Poi io come faccio a spiegargli che una famiglia,
una parola e il basso profilo sono le regole del successo per una
vita lunga e serena? Come spiegargli che non arriveranno a
trent'anni?”
-”Abbiamo
avuto la nostra occasione.- replicò Salvatore – Era comprensibile
che quando è entrata la droga nel business di tante famiglie il
tempo non è più bastato a evidenziare le differenze tra chi vale e
chi in poche settimane guadagna cifre che, talvolta, necessitano di
mesi, anni per essere guadagnate. Ma è in quei mesi, in quegli anni
che conosci le persone, ne vedi le debolezze e selezioni i migliori.
Ora con una botta di cocaina e un revolver in mano in tre minuti
rovinano l'esistenza di intere famiglie e, come per i cani, quando
assaggiano il sangue non si fermano più.”
-”Salvatore
è una battaglia persa. L'unica via è farsi da parte e, quando si
saranno scannati i padri con i figli e non rimarrà più nessuno
fuori dal fosso o dalla galera, vedere se qualcosa si sarà salvato.”
-”E
quello che penso di fare.” - Concluse Salvatore.
Il
padrone di casa gettò una voce nel vano della scala che conduceva al
primo piano e rifece accompagnare Salvatore e Ninetto al portoncino.
Adesso
Salvatore sapeva che la sua resa sarebbe arrivata a destinazione in
pochissime ore: si faceva da parte prima di essere “posato” dai
nuovi referenti o, peggio, di essere eliminato.
S'era
fatto molto tardi e appena giunto alla masseria si preparò per la
notte.
All'alba
consegnò del denaro a Ninetto che mostrò offesa per il gesto ma,
alla fine, comprese l'intento di Salvatore che non intendeva pagare
la sua ospitalità ma accomiatarsi, forse per sempre.
Si
fece accompagnare alla stazione di Termini e prese un treno per
Palermo. Ninetto mostrò una lacrima durante l'abbraccio di saluto di
Salvatore.
Appena
giunto alla stazione di Palermo, con un taxi, raggiunse la
concessionaria di suo nipote Pietro e fermatosi al bar di fronte
chiese a un ragazzo di consegnare un pizzino all'Ing. Benigno della
concessionaria. Pochi minuti dopo il nipote, trafelato e sorpreso, lo
raggiunse ma fu subito rassicurato che non c'era alcun problema.
Scambiarono i convenevoli del caso e si fece accompagnare in un
osteria del centro. Poi gli chiese di avvisare Pinuzzu di
raggiungerlo lì.
Pinuzzu
non mostrò sorpresa o nervosismo alcuno nell'incontrarlo. E
Salvatore ne prese atto anche se per un attimo aveva dubitato.
Pinuzzu allora dovette spiegargli perché i due ultimi viaggi di
sigarette non erano stati effettuati. Sembrava che c'erano problemi a
Napoli e a Brindisi. Quantunque egli tentasse di risolverli, ecco che
se ne presentavano altri. Salvatore capì l'antifona e rassicurò
Pinuzzu. Poi prese atto che alla Kalsa, dopo l'arresto del reggente
s'era fermato tutto. La finanza sembrava sapere il tragitto e gli
orari di tutti i camion e, puntualmente, sequestrava tutto: carico e
mezzi. I pezzi andavano all'incastro perfettamente: si faceva terra
bruciata attorno ai traffici tradizionali e ai personaggi muniti di
carisma che avrebbero potuto fronteggiare il nuovo corso. Sul tavolo
accanto c'era un giornale di pochi giorni prima: in prima pagina il
titolo parlava dell'omicidio di Francesco Madonia di Vallelunga
Pratameno. Era l'erede settantenne designato di Genco Russo e il più
fidato amico di Luciano Leggio padrone di Corleone.
L'attacco
adesso aveva un movente e dei responsabili evidenti.
Chiese
a Pinuzzu di accompagnarlo a Villagrazia. Li incontrò il “Principe”
al quale chiese indicazione sul da farsi e ebbe come risposta -”
Niente, u cavaddu i cca avi a passari” ( Niente il cavallo di qua
deve passare ) riferendosi al viddanu per antonomasia “ u Zù
Totò”. Intanto i giorni passavano e le notizie erano sempre più
gelanti: “Don Tano” di Cinisi era stato estromesso dalla
commissione accusato di avere dato l'autorizzazione per l'omicidio di
Madonia. Due piccioni con una fava, fottevano Don Tano e
oltraggiavano “Lucianeddu”: cominciavano le tragedie e i
tragediatori.
La
cosa che lo turbava era che ascoltando tanti vecchi reggenti e
capi-mandamenti si aveva sempre più l'impressione che il capoluogo
della Sicilia si fosse spostato a Corleone e a Palermo restavano solo
i vassalli. Allora assumette una decisione: liberò Pinuzzu da ogni
obbligo nei suoi confronti e lo invitò a seguirlo in Germania, se
avesse voluto, poi l'aiutò a rilevare una macelleria dove mise un
macellaio bravo e onesto che aveva conosciuto. Fece una cena con i
suoi nipoti Pietro, Nino e Franco dove dette le sue disposizioni e
indicò le persone da contattare in caso di necessità. Li mise a
conoscenza del fatto che sarebbe ripartito per la Germania. Abbracciò
i genitori ai quali aveva assicurato una rendita che ogni mese veniva
versata sul libretto della posta tramite un avvocato. Mentre era in
viaggio per la Germania si accorse di avere nostalgia della sua Rosy.
Nel
frattempo le strade di Palermo si coloravano di rosso che le tante
lacrime non riuscivano a lavare.
Erano
ormai passati più di due anni dal suo ritorno in Germania. Per la
prima volta, in tutta la sua vita, aveva assaporato la semplicità di
una complicità muliebre che in cambio non chiedeva e offriva
violenza ma fiducia. Incondizionata fiducia. Questa ora era la sua
famiglia. Grazie ai documenti falsi, e al denaro che aveva
accumulato, era riuscito a rilevare una partecipazione in un
birrificio con annessa birreria che produceva una discreta birra
grazie al mastro birraio e, fondamentalmente, al fiume a cavallo del
quale era, in parte, adagiata. L'acqua veniva attinta direttamente
dal piccolo fiume. La birra in pochi mesi, oltre alla vendita
diretta, si trovò sul tavolo di quasi tutte le pizzerie del Land.
Salvatore in questo era sempre convincente. A parte i locali dove ne
calabresi, ne campani o siciliani avevano potuto inserirsi. Ma andava
splendidamente così.
-”
Signor giudice è arrivato il rapporto della Interpol.”
-”
Maresciallo l'ha letto? Cosa dice?”
-”Sembra
che da mesi sia in corso un fuggi fuggi generale.- rispose il
maresciallo- E la meta preferita sembra il Brasile. Anche se abbiamo
contezza di alcuni trasferimenti in Sud Africa”
-”
E del Salvatore Benigno, cosa dice?”
-”
Volatilizzato. Sembra scomparso da tutti i radar.- replicò il
maresciallo- anche alla catturandi le notizie sono negative. Abbiamo
seguito i nipoti e il figlioccio, Pinuzzu, per mesi: casa e
macelleria. Però sembra che la fornitura della carne la faccia
presso quel macello riconducibile ai corleonesi. Come mezza Palermo e
provincia, ormai, da mesi.
-”
Non possiamo averne certezza, maresciallo, ma tutto indica una lupara
bianca.”
-”
Vede esistono omicidi che devono indicare una minaccia a una
categoria: giornalisti, poliziotti e magistrati. Poi abbiamo quelli
che devono indebolire una famiglia. E
quelli che devono ricordare il vincolo di omertà a quanti si
lamentano e inveiscono in pubblico. Tutti omicidi che devono essere
eclatanti. Alla luce del sole, e più sono eclatanti e più
arricchiscono il palmares di chi li compie e ne indicano la ferocia.
Ma alcuni omicidi, e parlo dei casi di lupara bianca, sono
collaterali a un indagine che viene svolta per fare terra bruciata ai
boss e, quindi, non occorre che si sappia che siano avvenuti. Una
mattina un amico ti chiede un incontro e da quello non tornerai mai
più. Salvatore Benigno avrà avuto un invito di quel tipo –
concluse il magistrato- e , credo che non troveremo mai più nemmeno
le sue ossa.”
-“
Credo che quest'anno, dopo l'omicidio Bontate, saranno più i morti
per le strade che i malati ricoverati al Policlinico. “ Sentenziò
il Giudice.
Il
tempo passava e Salvatore andava acquisendo sempre più fiducia nel
suo nuovo e inconsueto stato: pensava a se e Rosy. Nessuno che lo
cercasse per consigli o indicazioni. Nessuna mediazione tra interessi
diversi. Solo il commercio della sua birra. Alla produzione pensava
brillantemente il suo socio tedesco che non aveva mai fatto domande o
posto allusioni. Gli era bastata la parola di un vecchio amico che
all'inizio del rapporto lo presentò come un uomo saldo e fermo come
la quercia secolare che troneggiava all'ingresso dello spiazzo della
birreria. I fatti nei mesi seguenti dettero riscontro alla
affermazione e il tedesco mai ebbe a muovere alcun rilievo: poneva
problemi e Salvatore rimediava soluzioni.
Rosy,
poi, forte dei suoi quarant'anni di conduzione del panificio era una
risorsa in più: efficiente come una ragioniera e ragionevole come
una donna innamorata. In questo contesto la telefonata che annunciava
una visita per l'indomani mattina alle nove per Salvatore creò un
piccolo scossone. Ma poco si desumeva dal contenuto dell'incontro:
due funzionari dell'ambasciata italiana volevano un colloquio con
Salvatore e, per discrezione, lo fissarono al birrificio. Salvatore
dormì poco e male. Ma sapeva controllare le sue emozioni.
-”
Buongiorno, accomodatevi.- disse Salvatore all'indirizzo di quei due
uomini in abito grigio e scarpe lucidissime- Indicando i divanetti
del suo salotto privato posto nella direzione del birrificio. A cosa
debbo il vostro disturbo?”
-”
Niente di importante, solo formalità.- Annunciò il funzionario che
mise in chiaro i ruoli tra i due- Sa abbiamo fatto una rapida ricerca
di concerto con il Ministero dell'Interno su una serie di nominativi
e sembra che il suo figuri in partenza per l'Argentina, più di
vent'anni fa, ma non sembra essere mai entrato in quello Stato. E la
cosa pone degli interrogativi alla sezione statistiche.”
-”
Sono cose vecchie e mi rattrista parlarne.- rispose Salvatore- Ma, sa
quando successero i fatti luttuosi che mi convinsero a lasciare la
Sicilia avevo pensato di emigrare in Argentina per cui chiesi il
passaporto e le procedure per l'emigrazione. Poi, pensando che non
sarei più tornato in Europa, decisi di passare a salutare un
compaesano che da anni era emigrato in Germania. Fu lui a
convincermi a tentare l'esperienza quassù. Debbo a lui se non misi
in atto la mia decisione. Tutto sommato stavo bene. E, oggi, non mi
lamento.”
-”
Sa c'è un altro particolare- aggiunse il funzionario mentre il
collega annotava tutto- sembra che lei conviva con una siciliana,
tale Rosy, che risulta essere stata sposata due volte.”
-”
Convivere? Che parolona. Ho solo dato un tetto ad una donna
sfortunata cui morì il primo marito e del secondo si sono perse le
tracce. Sembra che la portò in Germania dove poco tempo dopo sparì.
E una donna eccezionale nel tenere i conti in ordine e, con
affettuosità, mi pregio di ospitarla. Tutto qua.”
-”
Vede noi abbiamo un doppio incarico. Uno ufficiale dell'ambasciata
Italiana e uno, diciamo ufficioso, del magistrato che sta per
emettere decine di mandati di cattura, in Sicilia, che potrebbero
scardinare una struttura secolare: la Mafia”
-”
E perché ritiene che io debba sapere queste cose?- chiese Salvatore-
cosa può interessare a un quasi sessantenne ormai trapiantato in
Germania di cosa accade in Sicilia?”
-”
A detta del giudice molto. Ha insistito personalmente di, una volta
individuato il secondo marito della signora, convincerlo a
collaborare. Non ci sono mandati di cattura a suo nome. E', per lo
Stato Italiano è un uomo libero. Aggiungo che ai massimi vertici del
governo si vede con preoccupazione la piega che sta assumendo
l'indagine in Sicilia. Diciamo che si ha nostalgia dei tempi andati
quando c'era poco “scruscio e tanto controllo”. Lei mi capisce,
vero?” Concluse.
-”
No. Sinceramente non la capisco. Non seguo la politica italiana ne,
tanto meno la cronaca siciliana. Mi spiaccio, questo sì, per
l'immagine che il mondo si fa dei siciliani. Ma che posso farci ?”
-”
Sa che, addirittura, c'è una parte del governo, in Italia, che
sarebbe favorevole a, diciamo, una transazione a saldo e stralcio di
tante posizioni individuali se si addivenisse a una ...chiamiamola
Pax tra le varie compagini che si stanno sterminando in Sicilia?
Credo che chi riuscisse a creare un incontro tra i vertici di quelle
fazioni e i vertici dello Stato potrebbe, poi, avere un ruolo
importante in Sicilia...”
-”
Il mio collega è un alto ufficiale dei carabinieri e ha avuto
l'assenso di garantire un eventuale accordo. Chiaramente dopo avere
esaminato le eventuali richieste. Crede che se, un giorno, si
presentasse il marito della signora Rosy potrebbe spiegargli il senso
della nostra conversazione?”
-“
Credo di si come credo che sia un eventualità molto remota ma, ed è
l'unica cosa che posso fare, cercherò di convincere la signora Rosy
a ricordare se è possibile individuare una traccia che porti al suo,
mai dimenticato, marito.”
-”
Vede perché abbiamo preferito parlare con lei? Sembrava inutile
scomodare la signora e più utile parlare con l'uomo che tanti aiuti
le ha dato.”
-”
Dobbiamo dire qualcosa al giudice appena tornati in Sicilia?”
-”
E cosa dovreste dirgli? Forse solo che avete sbagliato persona e
avete incontrato una persona “retta” e salda che ha fatto del
sacrificio quotidiano la sua arma vincente. E se quest'arma può
essere messa a disposizione della serenità della sua terra non sarà
certamente creato nessuno ostacolo che non possa essere superato.
Ma, si sa, il futuro è in mano a Dio.” Concluse Salvatore. E li
accompagnò alla porta dove, prima di uscire, il Colonnello gli porse
un biglietto da visita. Dietro recava una scritta vergata a mano: “
Con grande fiducia. G.A.”
Ora
sapeva che il Giudice sapeva.
Da
sempre, Salvatore, aveva acquisito la capacità di memorizzare i
tratti delle persone con cui veniva in contatto. Il tono della voce,
la gestualità e, soprattutto, gli sguardi. Sapeva leggere negli
occhi dell'interlocutore la bugia, la malizia, l'onestà e quanto le
frasi cercavano di nascondere. Era un predatore per natura ma aveva
un empatia istintiva con lo stato d'animo della preda. Questo per
dire che tutta la notte seguente, nei suoi dormiveglia abituali, fu
dedicata alla vivisezione di ogni parola del funzionario e nel modo
in cui l'incontro si era snodato in un apparente , innocua,
normalità. Riconosceva che tutto indicava la disponibilità di uno
Stato impaurito e impreparato a tali tragici eventi a intavolare una
trattativa con chi stava scuotendo le fondamenta del “principio di
tranquillità” dove tutti, amici, politici, imprenditori e gente
comune organizza le proprie storie se non i propri intrallazzi. Lo
Stato per decenni aveva tollerato traffici piccoli e grandi e tante
volte era entrato in affari, quando i numeri in gioco lo
giustificavano, con pezzi industria, finanza politica e sin anche
sindacato. Attraverso l'autorevolezza delle personalità che
scendevano in campo giornali, TV e opinione pubblica venivano, di
volta in volta, sistematicamente indirizzati verso una verità
piuttosto che un altra. Come spiegare questi concetti a uomini che
stavano mostrando una colombizzazione dei metodi ? Palermo, ormai,
sui giornali, anche quelli da sempre amici, veniva paragonata a
Beirut. Non si liquidava più l'uomo che si metteva di traverso a
traffici e situazioni ma , per colpirlo, non ci si curava di quanti,
vittime del caso, restavano uccisi e magari sbrindellati da un auto
bomba che veniva affidata a killer spietati. Tutto andava fatto
subito e in quel momento. Con lentezza e con riflessione posizionava,
come in uno scacchiere mentale, i pezzi ciascuno al loro posto. E
saltava all'occhio che molti non giocavano con le caratteristiche del
proprio ruolo: la chiesa non era più in grado di mediare ne a
livello del piccolo frate ne a livello dell'autorevole Vescovo. In
Prefettura tutti si guardavano da tutti. Le questure scoppiavano di
segnalazioni che era impossibile catalogare tra fonti attendibili e
delazioni interessate. Omicidi eccellenti tra i giornalisti che
tentavano di stemperare la curiosità della categoria, risultavano
stimolanti per teste calde che s'avventuravano su indagini e
supposizioni investigative. Insomma non era uno scacchiere di pace ma
una bolgia infernale. E, in tutto questo, lui che c'entrava? Come
avrebbe potuto, senza farsi sbirro, organizzare un incontro tra i
nuovi barbari e un pezzo di Stato prontissimo a negare tutto, se
qualcosa fosse andato storto, e quindi pronto ad abbandonarlo al suo
destino se non a eliminarlo? Quale vantaggio avrebbe tratto da una
mediazione al limite dell'impossibile? E gli amici americani che
parte avrebbero avuto nella vicenda? Una voce gli aveva sussurrato
che il padrino di Cinisi era stato estromesso e aveva trovato riparo
negli USA. Fino ad allora era stato il suo mentore ufficioso: non
aveva mai sbagliato una diagnosi ne, tanto meno, una cura. Eppure,
come tanti amici, aveva deciso per l'espatrio, per la fuga.
L'ultima
notizia ricevuta mostrava il giudice molto informato nei dettagli,
nelle dinamiche. Segno che un pezzo grosso aveva saltato il fosso.
Troppi particolari, troppe deduzioni davano alla vicenda questo
sentore. Ma chi aveva potuto sfidare secoli di omertà e di riserbo?
Chi s'era pentito? E, ammesso che avesse potuto trovare
sponda a Palermo in qualche moderato ancora munito del prestigio
necessario, come fidarsi di una Stato che era abituato a sconfessare
ogni funzionario che mostrava un po di logica? Se era normale
abbandonare i propri servitori perché doveva essere affidabile al
punto di affidargli la propria vita? Non fare nulla, poi, e godersi
la sua ormai raggiunta serenità non era la cosa più logica? Era
abituato a porsi domande ma mai gli era accaduto di non sapere porre
le risposte giuste. Segno che in questo gioco, questa volta, lui non
era esiziale e la cosa lo disturbava alquanto. Decise di mandare a
fanculo funzionari, giudice e quant'altro. Passarono diverse
settimane e la sua decisione gli appariva sempre la più sensata. Ma,
come in ogni storia, c'è sempre un accadimento, un fatto che
sovverte il naturale svolgimento dei fatti. Attraverso le solite
vie, il fratello che risiedeva in Germania lo avvertiva che il
figlio, Pietro, era tornato a casa e voleva un incontro. Non era
facile trovare il modo di incontrarlo ora che sapeva di essere
controllato ma doveva farlo. Si spostò, allora, in una cittadina
distante un centinaio di chilometri dal birrificio dove sapeva che si
svolgeva una Fiera dedicata alla ristorazione e fece in modo che il
nipote potesse essere accreditato in nome e per conto della pizzeria
paterna. La notte seguente lo raggiunse nell'albergo dove era
ospitato. Lesse subito negli occhi del nipote la tragedia che si
materializzò dopo che ebbe finito di raccontare cosa stava accadendo
a Palermo. E la notizia che gli altri due nipoti, Nino e Franco,
mancassero già da diversi giorni lo trovò impreparato. Pensava che
il messaggio che aveva lasciato a Palermo fosse chiaro: si poneva
fuori dai giochi ma, in cambio, non voleva avere parte nello scontro
in atto. Ebbe subito chiaro che il messaggio era indirizzato a lui.
Ma non riusciva a comprendere chi lo inviasse. La sparizione di uno
solo dei nipoti poteva addebitarsi a uno sgarbo, un colpo di testa
che veniva punito con l'omicidio e la sparizione del corpo. Ma il
fatto che fossero caduti entrambi dava alla vicenda il peso di un
avvertimento. Quindi avvertì Pietro di non muoversi dalla casa
paterna e di stare in guardia ché lui, poi, avrebbe risolto tutto.
Già,
ma come?
Durante
il viaggio sul tir verso la Sicilia ebbe tutto il tempo di pensare. E
la sua convinzione lo portava a credere che i “viddani” alla
ricerca della gola profonda stessero facendo terra bruciata attorno a
tutti i vecchi elementi nella vana ricerca del responsabile. Era la
strategia più logica: fare uscire allo scoperto per intimidire i
nuovi pentiti e, alla cieca, punire chi non era passato alla nuova
guardia. Le decine di morti tra donne e bambini innocenti davano peso
a questa ipotesi. Sapeva che Nino e Franco solo a una persona vicina
allo zio Salvatore avrebbero affidato la propria vita e, quindi, era
un suo vecchio amico che doveva cercare per trovare il traditore. Ma
sapeva anche che non era il tempo della vendetta quanto il tempo
della mediazione. Arrivato a Palermo si recò nelle campagne di
Torretta per cercare chi sapeva da tempo passato con la nuova cupola.
I nuovi padroni di Palermo. Andò armato anche se sapeva che non era
sufficiente garanzia avere un arma addosso: se le intenzioni erano
malevole non avrebbe avuto il tempo di usarla. Aveva usato un giovane
muratore dell'impresa dove lavorava uno dei nipoti scomparsi per
arrivare sin li. Una faccia nuova che era sconosciuta e, quindi,
affidabile. Il giovane era stato avvertito che avrebbero dovuto fare
una stima dei lavori necessari a un fabbricato rurale e che alla fine
ci sarebbe stata una generosa mancia per il disturbo.
Appena
arrivati furono accolti da un paio di giovani dal fare sbrigativo e
sicuro che lo intromisero in un ampio salone di un vecchio
fabbricato. Poi, prese istruzioni dal padrone di casa, portarono il
giovane in giro per il fabbricato. E Salvatore si trovò faccia a
faccia con l'anziano patriarca.
-”
Salvatore perché questa visita?”
-”
Don Filippo non è una visita di cortesia ma piuttosto un
ambasciata.” Rispose.
-”
Da parte di chi?- chiese l'uomo anziano- E, sopratutto rivolta a
chi?”
-”
Don Filippo quando partii fui chiaro, mi “canziavo” in cambio
della serenità. Io il mio impegno l'ho mantenuto ma qualcuno non ha
mantenuto il proprio. Ora,a questo punto, nei “palazzi” a Roma si
chiede pace e si offre tregua. Tutti hanno perso qualcuno e troppi
piangono in silenzio. E' tempo di smettere il casino e tornare al
silenzio. Bisogna andare in immersione, verso la tranquillità. E lo
Stato è pronto a mettere tutti i silenziatori del caso. Io non ho
cambiato opinione sulla affidabilità dello Stato ma comprenderete
che da qualche parte bisogna iniziare. Voi che pensate?”
-”
Frati miu cosa vuoi che interessi cosa penso io? Qui il lunedì si
dice di mangiare carne e il martedì salta fuori qualcuno che porta
pesce. Ma ogni giorno io vedo solo piatti di “ reschi ri pisci”
(lische di pesce) e questa cosa , hai ragione tu, non è buona. ma
qual'è la tua proposta e chi se ne fa garante?”
Salvatore
porse il biglietto del Colonnello e invitò Don Filippo a leggerne il
retro.
Un
sorriso malizioso prese posto sul viso dell'anziano patriarca.
-”
E tu come proponi che si debba svolgere l'accordo. Chi si siede con
chi? Chi comincia i passi per tentare un discorso di questo tipo?”
Replicò, infine, l'anziano.
-”
Credo che con tutti questi uomini in galera è proprio da li che
bisogna cominciare”.
-”
Il pentito ha dato in mano al Giudice tutti quelli che lo hanno
tragediato. E, credo, ci siano più uomini al gabbio che in libertà.
E' su loro che dobbiamo fare breccia. Nessuno ama pensare di passare
l'intera vita all'ergastolo. Saranno loro a fare pressione”
-”
Mi piace la pensata - sottolineò l'anziano patriarca- e sono
d'accordo. Faremo partire da li la spinta a ragionare.”
Una
stretta di mano sancì il più pericoloso dei patti. Ora Salvatore
sapeva che la proposta sarebbe arrivata a Corleone. Come sapeva che
era una speranza vana e temeraria che lo esponeva in maniera
irreversibile.
Prima
di lasciarsi il patriarca disse a Salvatore:-” Credo che la
proposta sia sana e onesta e non so come verrà accolta ma un regalo
te lo devo fare: sembra che i tuoi nipoti furono invitati a Ciaculli
per una mangiata la settimana scorsa.” Salvatore capì e si
congedò. Quindi uscì e invitò il giovane muratore a chiudere il
preventivo e a tornare in ufficio
Quindi
l'infamia partiva da Ciaculli – pensò- durante il tragitto di
ritorno. E lui aveva un solo amico a Ciaculli che adesso stava in
galera.
Salvatore
trovò riparo presso un ufficietto 40 metri quadrati in viale Lazio
che Pinuzzu aveva da tempo preso in affitto e trasformato in rifugio
con angolo cottura che lo rendeva autonomo e confortevole per un
eventuale vacanza forzata. L'edificio non aveva portiere e
l'ascensore rendeva rapida l'entrata ed uscita in perfetto anonimato
perché scendeva sino al piano garage interrato. Non dovette
aspettare molto la risposta che attendeva: L'Ora, quotidiano
palermitano, particolarmente attento a decifrare fatti e misfatti che
in quei giorni si incrociavano a Palermo, pubblicò la foto di Don
Filippo in un istantanea che lo ritraeva attorcigliato su se stesso
nell'ultimo disperato istante di vita. Rivoli di sangue usciti dai
fori dei proiettili indicavano spari da almeno tre direzioni. Il
messaggio di risposta allo Stato era chiaro: nessuna tregua, nessun
accordo. Salvatore sapeva che una pax era il suggellamento di un
accordo che cristallizzava posizioni e supremazie territoriali. Ed il
segnale indicava che il tempo di questa pace era lontano a venire e
che la dittatura che si stava imponendo non era ancora consolidata.
Il Giudice, ne era sicuro, avrebbe fatto le stesse osservazioni e
sarebbe arrivato alle stesse conclusioni. Come convenuto, alle prime
ore dell'alba, Pinuzzu aspettava nel garage presso la porta
dell'ascensore che Salvatore scendesse. Saliti in auto gli presentò
un giovane uomo che alla domanda di Salvatore: “ te la senti?”
rispose affermativamente. Con serenità, con sicurezza. In pochi
minuti in una Palermo semi addormentata la 127 coprì il tragitto
della circonvallazione fino a Ciaculli. Al segnale dei tre
scampanellii brevi seguiti da uno lungo l'uomo scese dalla sua
abitazione e superata la sorpresa mostrò serenità nell'incrociare
lo sguardo bonario di Salvatore. Entrò in auto dal lato passeggero
mentre Salvatore era alla guida. Fecero poche decine di metri e in
uno slargo prospiciente ad un cancello di ferro di un agrumeto
Salvatore accostò. Spense il motore e chiese:
“
Giovanni hai notizie
dei miei nipoti?”
“
Salvatore l'altra
sera li avevo invitati per una grigliata ma non si sono presentati.
Avevo un ambasciata da dare a te ma, visto che sei qui, posso dartela
adesso” Rispose.
“ Dimmi
pure...” Accennò Salvatore.
Ma
la risposta rimase serrata in gola mentre, da dietro, Pinuzzu,
comparso dal nulla, serrava la sua gola con un filo di freno da
bicicletta. Lo spasmo fu inizialmente convulso e violento ma cessò
dopo mezzo minuto. Forse era giunto prima un infarto per la paura. O
per la mala coscienza. Accese il quadro e dette tre colpi al pedale
del freno. Al segnale convenuto una 112 si avvicinò e il giovane
scese e si accomodò dietro per far spazio a Pinuzzu che si mise alla
guida per riportare a casa Salvatore. Appena giunti sulla
circonvallazione Salvatore si sbarazzò, lanciandola dal finestrino,
del pezzo di lingua avvolta in un fazzolettino che aveva reciso al
morto. Almeno i suoi parenti avevano un posto dove piangere il
defunto, pensò, mentre le sue nipoti non avevano nemmeno
quello.Giunto nel suo rifugio pensò solo a farsi una doccia e a
mettere la camicia in una tinozza con della candeggina per eliminare
le tracce di sangue raggrumato prima di disfarsene. Ormai il sole
aveva preso possesso della via e il bar era pieno di muratori e
venditori ambulanti che prendevano il loro primo caffè. Un salto in
edicola per il Sicilia aspettando l'edizione pomeridiana dell'Ora
chiuse le sue commissioni.
Tornò
al rifugio e si mise a letto.
La
sveglia trillò ma lo trovò in dormiveglia. Scese per acquistare il
quotidiano L'Ora ma non trovò, nei titoli, alcun riferimento alla
127. Solo un trafiletto in cronaca all'interno. Tanto, ormai valeva
la vita di un uomo in quei giorni di mattanza. L'ennesimo regolamento
dei conti, sosteneva il cronista.
Era
tempo di tornare da Rosy. Ogni volta, e questo non smetteva mai di
stupirlo, ne sentiva sempre più la mancanza quando se ne trovava
lontano. Era una sensazione che lo faceva sentire debole per qualche
attimo ma che lo rendeva forte nei minuti successivi. Sentiva di
avere uno scopo, una meta che non era legata al denaro, al potere. Ma
non accettava ancora che potesse essere amore. Per lui c'era
l'affetto, il legame, la complicità e la sua vita non gli aveva mai
consentito di codificare un sentimento più alto di questo. L'amore è
per i romanzi, per i Santi, per i deboli. Decine di anni passati ad
affidare la propria vita alla lealtà, al rispetto, alla parola, alla
dignità avevano reso sterile il suo cuore all'amore che per lui
significava debolezza, bisogno, rischio. S'era mai visto un lupo
innamorarsi di una lupa? Un branco può affidare la sua sopravvivenza
a un capo branco che non sia in grado di abbandonare un elemento
quando questi si presenta, per la sua debolezza, un peso per la
comunità? E cosa era lui se non un lupo?
Se
tante persone che si erano avvicinate a lui ora potevano dirsi
autonome, libere, vive non era forse per la sua capacità di
reprimere i sentimenti e fare la cosa giusta nel momento giusto? Ogni
persona che aveva pagato un prezzo per essersi messa di traverso ai
suoi progetti non era forse colpevole? E non meritava, dopo il
necessario avvertimento, di essere messa fuori dal gioco? Non è la
vita stessa che impone queste scelte? Non è da secoli che i re e,
dall'inizio, i capi del villaggio si trovano a sacrificare vite,
uomini e persone per creare la propria autorità? Non lo hanno forse
fatto Papi e Cardinali? E' la trama della vita che, talvolta, trova
dei nodi che devono essere recisi perché l'ordito proceda veloce e
l'arazzo appaia bellissimo. Chi mai ha girato un arazzo e ne ha
contato i nodi?
Tutto
questo pensava, ma sentiva comunque uno strano rimescolio nel suo
animo a pensare a Rosy.
Un
senso di impotenza dovuto alla lontananza che lo rendeva ansioso di
tornare e, con lui, la sicurezza da offrire a una donna che aveva
aperto uno squarcio nella sua coscienza. Ora che ci pensava l'unica
violenza che aveva perpetrato quella mattina era stata la recisione
di una lingua a un corpo morto ma nient'altro, mentre era vivo. Non
aveva sfogato la sua rabbia per la scomparsa dei suoi nipoti come un
tempo avrebbe fatto fino a sbucciarsi le nocche delle mani. Niente,
aveva solo dato prova di crudeltà e potere a Pinuzzu con quel gesto,
a dissimulare uno stato d'animo che non poteva essere messo alla
luce. E Pinuzzu non aveva esitato durante tutta l'operazione. La
faccia era salva ma sapeva che qualcosa mutava nella sua coscienza.
Fu in una frazione di secondo che decise di non ricorrere più a quel
tipo di violenza. Ebbe un flash dove il viso piangente della vedova e
dei figli gli provocarono compassione. Quel volto che idealizzava si
trasfigurava nel volto di Rosy e provava dolore nel vederlo contrito,
arreso, disperato. Non gli era mai successo. Organizzò il viaggio di
ritorno con un camionista che si imbarcava quella sera per Genova e
proseguiva per la Germania.E non ci pensò più. Si presentò a piedi
al porto dopo essere passato ad abbracciare l'anziana madre. Con la
consapevolezza che sarebbe stato per l'ultima volta.
Non
era alla morte, possibile, della madre che pensava ma quella di
Salvatore. Il Salvatore sin qui vissuto. Ne nasceva un altro che di
tutti quei massacri, di tutte quelle infamità, di tutto quel mondo
sentiva di non aver più parte.
Il camionista gli fece posto in
cabina e cominciarono a chiacchierare in attesa dell'imbarco.
Il
viaggio in nave, in parte, avvenne di notte. E al mattino ricordò
frammenti del sogno: Ballarò, la sua infanzia, squadre di
monelli che scendevano a mare verso la Kalsa – quartiere storico
che si affaccia sul mare – e tenevano battaglie, il giorno dei
Morti, a Novembre, con i monelli del quartiere. Carrozze che sul
lungomare portavano in giro i benestanti di una Palermo dove il pane
era un lusso e dove, durante la sua infanzia, tutto era un miraggio.
Dove un paio di scarpe era la protezione non per camminare sul
selciato tra pozzanghere e acquitrini ma segno distintivo per
sfuggire agli sguardi vigili degli sbirri che. al soldo di uno Stato
assente, governavano le strade e ne erano gli sceriffi. Ricordò una
pietrata sulla fronte di un ragazzetto fuori contesto con scarpe nere
e lucide sopra calzettoni estivi e una voce che lo chiamava da un
angolo di strada: “ Giovanni, vieni via. Adesso, subito.” E il
suo viso che si trasformava, si deformava, diventava adulto e
assumeva i tratti del giudice che lo aveva interrogato, che lo
cercava. Poi si trovava con il padre su un carretto assieme a uno zio
che scendeva da Montelepre con un carico di paglia e fieno per gli
animali sotto cui, ben occultato, c'era una mezzena di vitello
avvolta in un lenzuolo che suo padre sezionava appena arrivato a
Ballarò e che vendeva al mercato nero. E gli sbirri che a sera
venivano a reclamare la “ parte” ( la loro piccola porzione a
pagamento del silenzio e dell'occhio chiuso durante la giornata).
Vedeva la tavola dove suo padre sedeva a capotavola, la sera, per
consumare l'unico pasto della giornata nel silenzio generale. Cicoria
e patate bollite con cipolle ad insalata che la madre aveva condito
con un cucchiaio d'olio e tre di aceto. E quella forma di pane
coperta dal canovaccio bianco, lindo, di cotone che veniva aperto e
richiuso religiosamente dopo il taglio di ogni fetta. E quel
bicchiere di vino bianco che accanto una caraffa d'acqua troneggiava
per l'intera cena. Poi suo padre in un angolo del tinello puliva,
come ogni sera la doppietta e le scarpe con una precisione che era
cronometrata dieci minuti alla doppietta e cinque alle scarpe. E,
finite le pulizie, sua madre che spegneva le candele e la lampada a
olio che per quasi un ora aveva rischiarato la oscurità della casa.
Poi a letto. Tutti. E alle quattro e mezzo la vita ricominciava:
carretto, mulo e via a cercare cibo o commerci per vincere un altra
giornata. Vedeva le giornate domenicali che qualche volta avevano a
tavola l'insalata di “ musso e arance” o i “ carcagnoli” - le
parti cartilaginee della mascelle o dei piedi dei maiali o dei
vitelli- o se la “ fornacella” era accesa – piccolo recipiente
di lamiera dove il carbone ardeva - “ stigghiole” o, ancora,
qualche pesce azzurro che era il pranzo per la famiglia e la delizia
olfattiva per tutto il vicinato. Vedeva insomma la sua infanzia, la
povertà della sua infanzia ma non ne provava vergogna, anzi, ne
sentiva nostalgia. Vedeva un madre bella e un padre amorevole anche
se arcigno che, comunque, non lesinava carezze sfuggite da quelle
mani gigantesche sia per le sue sorelle che per lui ed il fratello.
Ma che qualche volta, poche per la verità, diventavano fonte di
timore per la nuca di entrambi. Vedeva poi l'entrata del carcere dove
per la prima volta fu portato e ricordava la settimana di passione
che subì a opera di sbirri che si divertivano a torturare tutti i
tradotti nelle patrie galere a prescindere dal loro stato di
colpevolezza. Si usciva dalla guerra e dal fascismo. Ma nel carcere
dovettero passare anni prima che se ne accorgessero. Poi si svegliò,
intontito, come una persona che esce in pieno giorno da un cinema
dove ha perso la cognizione del suono e della luce e che, per diversi
minuti sembra aleggiare su una realtà che era stata annullata.
Presero un caffè e cominciarono la giornata con l'autista
dell'autotreno. Sbarcati che furono a Genova decise di prendere un
treno per Milano. A Milano, come in tutte le le città in cui avevano
preso la residenza tanti scappati da Palermo, ma anche dalla Campani
e dalla Calabria c'era una comunità silenziosa e operativa.
Decine
e decine di uomini abituati a lottare con la vita e con la morte
giornalmente avevano trovato l'eldorado al nord. Entravano in banche
per prelevare denaro senza bisogno di rapinarle. Le truffavano
semplicemente. Quasi sempre con la complicità di un funzionario
infedele che dava l'assenso a un fido o a una scopertura di conto che
puntualmente non veniva ripianata. Il meccanismo era semplice: con
l'aiuto di un imprenditore in odore di difficoltà economica locale
si provvedeva ad aprire conti dove venivano depositate somme via via
più consistenti e si comprava con assegni post- datati merce che si
svendeva per contanti. Nessuno faceva domande se i meridionali erano
scorretti i settentrionali erano famelici. Quando la fiducia del
fornitore era al punto massimo e gli assegni post-datati pure si
mandava il primo assegno in protesto. Non prima di avere svuotato i
conti. Le immobiliari vendevano case bellissime sulla carta e le
banche con l'aiuto di notai prezzolati erogavano muti frazionati in
base all'avanzamento dei lavori. Di solito il cliente restava padrone
dei bei disegni a china e colorati della casa dei suoi sogni. Poi in
cantiere c'era un fossato che alle prime piogge si riempiva d'acqua e
niente più. Insomma diciamo che i contrabbandieri e i truffatori
meridionali avevano scoperto che non occorreva rapinare per
arricchire. Certo c'erano i violenti che si innestavano sulle male
locali dedite a prostituzione e usura ma di quella gente Salvatore
non voleva sentire nemmeno l'odore. Non c'è onore a sfruttare donne
e disperati, pensava. E poi da anni i soldi del commercio border line
dei siciliani avevano trovato dei maghi della finanza milanese e dei
costruttori che rendevano un buon margine. Gente con buone entrature
internazionali che diversificava. E lui li era indirizzato: aveva da
riscuotere un investimento notevole frutto dei traffici di sigarette
suoi e dei suoi associati. E, adesso, era l'unico sopravvissuto di
quella cordata. I soldi, poi, erano tanti. Non gli fu difficile,
appena giunto a Milano, di essere ricevuto all'ultimo piano della
società dove uno smagliante sorriso lo mise a suo agio e un elegante
“sarà fatto” mise fine alle sue richieste. Poi un “ ora mi
scuso ma ho un appuntamento col Sindaco” e un “ il Dottore Ribera
è a sua disposizione per definire le modalità dello spostamento dei
fondi” mise fine a un incontro di sei o sette minuti. Sempre
efficienti i milanesi. Uscì con un piccolo foglietto in cui era
annotato un saldo in dollari e due numeri di conto di una banca
svizzera. In un altro foglietto c'erano le parole d'ordine per
accedere ai conti.Maurizio, un piccolo imprenditore di Arona in
provincia di Novara, che era stato suo compagno di cella in una sua
permanenza al carcere di Opera, fu felice di sentire che sarebbe
passato per una rimpatriata di poche ore e, quando si incontrarono,
non volle sentire ragioni: cena assieme e l'indomani avrebbe
provveduto lui ad accompagnarlo a Lugano. E così fece. Quando si
lasciarono alla stazione una lacrima di commozione solcò il viso di
Maurizio: poche ore erano state sufficienti a ricordare l'afflato che
Salvatore aveva dimostrato nei suoi confronti quando aveva visto
arrivare un uomo distrutto nella sua cella. In pochi giorni lo aveva
rimesso in piedi e Maurizio gliene era riconoscente.
“ Per
ogni detenuto che incontrerai, figlio mio, - gli aveva detto un
anziano ergastolano – ricorda che se lo tratti bene qui dentro,
avrai un fratello la fuori...”. Era vero pensò Salvatore.
Ora
era il momento di andare a casa. Dalla sua Rosy. Tutto era stato
sistemato.
Quando
la portiera del pullman si aprì aspettò che drenasse un po di gente
prima di scendere e, appena a terra, si diresse verso un bar. Aveva
lasciato, come al solito, il sacchetto con il cambio d'abiti nel vano
del pullman. Si fece bastare quel lontano sapore d'espresso affogato
in un tazzone d'acqua calda e, uscito dal bar, cercò tra le persone
in attesa il garzone che il suo socio aveva mandato a prenderlo.
Trovò, invece, due facce conosciute ad attenderlo.
-”
Colonnello, buongiorno come mai da queste parti ? “ Disse
all'indirizzo dei due.
-”
Indovini un po'...” Replicò l'agente in borghese, invitandolo a
salire sulla Mercedes in moto.
-”
Abbiamo pensato che le avrebbe fatto comodo un passaggio sino al
birrificio. Sarà molto stanco del viaggio, no?”
-
“ Bah, più che stanco dispiaciuto. Come sono sempre quando un
affare non si conclude positivamente. Ma che ci vuol fare,
Colonnello, ogni affare ha i suoi tempi. E per quello che avrei
voluto chiudere io, credo che ne occorrerà tanto di tempo. Diciamo
che le condizioni non sono mature. Ma perché parlare dei miei
affari, avrà certamente qualcosa da dirmi se si è scomodato fino a
qui, no?” Tagliò corto Salvatore.
-
“ Veramente nulla, non ho proprio da dirle nulla. Avevo solo
sperato in notizie di prima mano dalla Sicilia. Sa il giudice è
sempre convinto che lei ha a cuore l'esito di certe storie come e più
di lui. Si sbaglia?” Insinuò il Colonnello.
-
“ Vede certe cose stanno a cuore a tutti. E si spera che la
Provvidenza aiuti. Ma si vede che anche lei ha i suoi tempi.”
-
“ E noi aspetteremo. A proposito di Provvidenza ha letto dei 500
mandati di cattura spiccati in Sicilia ? Sembra che un amico abbia
saltato il fosso. E qui comincia il declino di un Impero...”
-
“ Dice?- interloquì Salvatore – Ho letto una sfilza di nomi ma
non mi sembra che ci fossero politici nell'elenco. Quindi l'impero è
salvo. I soldati cadono in battaglia ma sono subito sostituiti, non
crede?”
-
“ Vedremo – replicò irritato il colonnello – vedremo”.
Intanto
erano giunti nello spiazzo camionabile del birrificio e Salvatore si
congedò e scese.
Quando
la Mercedes, sgommando, ripartì alzò gli occhi verso la finestra
dell'ufficio e incrociò lo sguardo di Rosy.
Era
a casa, finalmente.
Sbrigò
un po di faccende nel suo ufficio, firmò delle carte che il suo
collaboratore gli sottoponeva con la traduzione a lato e avvisò il
suo socio che, per un paio di giorni, sarebbe stato nell'albergo sul
lago che gli aveva fatto conoscere un anno prima. Sapeva che Rosy
sarebbe stata contenta di averlo tutto per lei per un fine settimana.
Furono due giorni di intimità e coccole, colazioni sul balcone e
pranzi all'aperto, pennichelle e risate. Ma finirono. Tornato al
birrificio trovò un appunto di Pietro, il nipote, che lo avvisava di
avere comprato il giornale italiano di due giorni prima e di
averglielo lasciato sulla scrivania. Lui comprese e, a malincuore, lo
aprì. Poche righe con foto, all'interno, davano conto del
ritrovamento di due cadaveri incaprettati dentro un contenitore dei
rifiuti davanti una caserma dei carabinieri. Lesse i nomi e
s'accomiatò nel suo cuore da Pinuzzu e, purtroppo, il giovane uomo
che li aveva aiutati. Erano le regole del gioco. Le conosceva e aveva
imparato a non lamentarsene mai.
Un
altro appunto indicava un appuntamento in un locale per le ventuno
del giorno appresso. Aveva fatto l'invito l'ingegnere Paola. Sapeva
che non poteva mancare. Anni prima aveva accettato di essere iscritto
in un club a Trapani che aveva, gli riferivano, sedi a Palermo e in
tutta Italia. Poi scoprì che erano in tutto il mondo. Lo stranizzò
quella procedura da film per cui per essere iscritto, non bastava la
quota annuale ma doveva sottostare a strani comportamenti che gli
erano parsi comici ma che vedeva accomunare tanta gente importante.
Quindi pazienza se dovette, la prima volta, scoprire una gamba,
essere bendato giurare qualche cosa che adesso non ricordava e
ritrovarsi infine seduto tra i banchi alti, scuri insieme a tanti
avvocati, ingegneri, funzionari, direttori di banca, politici.
Insomma la Trapani che contava. E poi, da allora, la Palermo che
contava. Chi lo introdusse gli spiegò che non occorreva che si
presentasse a tutti gli incontri dentro l'associazione ma che era
gradita la sua presenza alle cene che ne seguivano. Agapi le chiamò.
E il nome era così strano che lo memorizzò subito. Quando si
trasferì in Germania non lo sorprese che anche lì vi fossero sedi
dell'associazione.
Ma
anche lì raggiungeva i soci, dopo che si erano riuniti per le loro
faccende, al ristorante. E così fece anche la sera dell'invito.
Conversò, portò dei regali per eventuali ospiti – cassette con
salsicce e birre artigianali del suo birrificio- e poi si appartò
con l'Ingegnere. Dopo i convenevoli d'uso, questi, lo informò che
degli amici fraterni lo aspettavano sopra il ristorante, nell'ufficio
del titolare, anch'egli associato. Salì, quindi, dopo essere passato
dall'auto e avere preso un rivoltella che teneva nascosta in auto, e
si recò presso l'ufficio. Da tempo nello scrivere pizzini a amici,
per lo più latitanti, aveva preso l'abitudine di indirizzarli non ad
un nome ma a un numero. E così facevano con lui. Lui era numero
sette. E tanto bastava. L'eventuale confidente questo poteva riferire
e non il nome. Quindi uno stupore amaro lo colse quando, entrando,
s'accorse che uno dei tre seduti sulle poltrone era numero due. Gli
altri li aveva conosciuti a Milano ed erano da tempo impiantati li
dove conducevano delle importanti attività presso i Mercati Generali
senza avere mai smesso i rapporti con gli amici palermitani.
Si
salutarono con il bacio rituale e le mani di ciascuno corsero lungo
le spalle dell'altro a simulare un afflato che, invece, serviva ad
assicurarsi della presenza o meno di un arma alla cintola sopra i
glutei. Tutti e quattro ne erano forniti.
- “ Salvatore - esordì numero due – sai il rispetto che tutti abbiamo di te, della tua storia, del tuo comportamento e per me fu una gioia la sera della tua affiliazione e un onore quando tutti convennero che a Ballarò tu dovevi garantire la pace. Qualche volta ci hai dato dei dispiaceri ma tutti abbiamo capito che per te il traffico di droga era un discorso chiuso. Ma sei sempre stato fedele alla parola data.”
- “ Ora tutti abbiamo capito che non hai avuto il tempo di avvisare, l'altra mattina, prima di chiudere il conto con la buonanima ma capirai che, in tua assenza, qualcuno doveva organizzare la risposta. Ti faccio le mie condoglianze per il tuo amico fraterno ma in guerra si cade. E si cade in entrambi i fronti. - continuò - Ora il capitolo è chiuso. Tu che dici? “
- “ Dico che tutti noi siamo pronti a ogni evenienza. Queste sono le regole del gioco e mi occuperò io della famiglia di Pinuzzu. Il capitolo è chiuso.” Replicò Salvatore dissimulando la commozione nel pronunciarne il nome.
- “ Sistemata la questione, ora andiamo al motivo dell'incontro. Sappiamo che a Roma c'è tutto l'interesse a spegnere le vampe che stanno bruciando mezza Sicilia. Ma le cose non stanno più come l'ultima volta a Catanzaro. Li sapevamo in partenza chi sarebbe stato assolto subito e chi poi in Cassazione.Questa volta c'è un governo che gioca su tre o quattro tavoli. Gli amici che a Palermo hanno mangiato tanto adesso li vedi tentennare. Prendere tempo. In una parola sono mozzarelle con la scadenza e non lo sanno.
Questo
nuovo giudice e i suoi compari stanno smantellando mezza Sicilia. E
da Don Masino nessuno si spettava una sbirrata del genere. Non
mancherà molto e altri lo seguiranno.”
Salvatore
seguiva in religioso silenzio attendendo di capire cosa si volesse da
lui.
-
“ Tu ti stai chiedendo cosa c'entri in tutto questo. E' presto
detto: devi aprire un canale con quel Colonnello che ti tampina. Devi
prepararlo a ricevere le nostre richieste. C'è, addirittura, una
relazione al Ministero che prevede di utilizzare il 41bis non solo
per le rivolte ma in tutti i casi dove un pubblico ministero
individua l'associazione e se succedesse questo sarebbe come murare
vivi tanti padri di famiglia. Serve un po di elasticità in
Cassazione. Insomma dobbiamo alleggerire la posizione di tanti amici
che cominciano a non “tenere” più la vita carceraria. E tu, sai
a cosa mi riferisco. Tutti, da questa parte sappiamo come hai
superato il carcere tu e tutti ti rispettiamo. Loro lo sanno per
questo hanno scelto te per arrivare a noi.” Concluse numero due.
-
“ Non ho mai messo la mia vita, le mie cose davanti agli interessi
della famiglia. E non comincerò adesso. Ma cosa devo fare
esattamente? Cosa devo promettere? E chi garantirà? La mia parola
non credo che interessi al Presidente.” Replicò Salvatore.
-
“ A Roma ci stanno lavorando come a Palermo e a New York. Ti
lascerò un mio uomo a lavorare da te e avrai un contratto con delle
pizzerie a Palermo. Lui scenderà a consegnare le birre e salirà con
le mie parole. Io terrò buona “ la testa dell'acqua” ( Il numero
uno ). Per quanto è possibile”. La discussione ebbe fine e scese
nel ristorante per finire l'agape con gli amici. Che non conosceva.
Quella
sera, a casa, sentì il calore delle braccia di Rosy in un modo
diverso. Un abbraccio che dava calore, confort. Ebbe un brivido a
trovarsi a pensare questa cosa. Ma la pensava con tutto il suo cuore.
Giuseppe
posò con accurata lentezza il manoscritto sul tavolo e guardò
all'indirizzo della madre che sembrava assopita sulla sua dormeuse.
Sorrise pensando che quando glielo aveva regalato, lei, con gli occhi
pieni di felicità, aveva esclamato:-” No, Giuseppe non dovevi
regalarmi a “ rurmusa” - nel suo vecchio dialetto palermitano-
Non dovevi farlo.” Ma da qual giorno non aveva smesso di usarlo
anche se per una sola mezz'ora dopo pranzo.
Ma
l'ultraottantenne Rosy non dormiva. Aspettava curiosa la reazione di
Giuseppe dopo la lettura del manoscritto. E domandò:-” Ti è un po
più chiaro adesso chi era tuo padre?”
Giuseppe
era stordito da quelle rivelazioni e si domandava come poteva
l'autore conoscere le sensazioni di suo padre legate ai fatti
narrati. La storia è una collana di fatti. Alcuni più veri,
riferiti, e altri presunti, dedotti ma gli stati d'animo citati nel
manoscritto da dove venivano? E qual'era la verità sulla morte del
padre? Cosa accadde dopo l'incontro in pizzeria con il numero due?
La
madre intuiva le domande di Giuseppe e sapeva che un giorno sarebbero
state poste quindi decise di metterlo al corrente:-” Giuseppe, tuo
padre dopo quell'incontro venne da me e, finalmente, si confidò. Fu
l'unica volta che vidi lacrime sul suo viso. Nemmeno anni dopo,
quando il cancro lo divorava ma lui, per principio, non voleva
morfina per combatterlo, quando i dolori se lo mangiavano, ebbe mai
lacrime da versare. Ma quella volta le sue lacrime servivano a lavare
una cosa che lui non credeva di avere: la sua anima. La sentiva
sporca, cattiva e sapeva che le sue mani erano sporche di sangue e
lacrime degli orfani e delle vedove. Mi disse molto, forse non tutto,
ma bastò a provocare in me un moto di perdono. Io lo assolsi con la
forza dell'amore che avevo per lui e con il sussidio dell'amore che
lui aveva scoperto di avere per me.”
-”
E poi che successe? ” Chiese Giuseppe.
-”
Poi, con la lucidità che aveva sempre nei momenti di pericolo, disse
che dovevamo andare via. Mi disse che aveva dei soldi in Svizzera e
che aveva predisposto dei piccoli conti fiduciari per le sorelle a
Palermo da dove, ogni mese, partiva una rendita sufficiente a farle
vivere. E che aveva aperto un conto in Sud Africa dove potevamo
prendere abbastanza ogni mese per stare felici fino alla nostra
morte.”
-”
Quindi prima partii io con dei documenti che aveva fatto fare tempo
prima, per ogni evenienza, mi disse, e poi mi raggiunse lui dopo due
settimane. Li aveva un amico scrittore, o così sosteneva perchè io
un suo libro non l'ho mai letto, e cominciò a dettare le sue
memorie. Ci misero tanto tempo: correggevano e ricorreggevano ma alla
fine finirono il manoscritto. Adesso lo hai in mano tu. Prima di
morire mi chiese che quando avessi ritenuto avrei dovuto
consegnartelo. Sai, quando tu arrivasti dopo un anno di problemi con
l'adozione – che i soldi di tuo padre puntualmente risolvevano- lui
era già un altra persona e averti in braccio lo rendeva orgoglioso.
Ma ti potè godere solo qualche anno poi la malattia se lo portò. Ed
io tornai a Palermo”.
-”
Avevo un plico da consegnare a un giudice come tuo padre mi aveva
fatto promettere di fare e così feci. Dopo un paio di settimane un
giudice del tribunale dei minori mi mandò a chiamare e mi spiegò
che, anche se la procedura sarebbe stata lunga e “ forzata ”, era
stato pregato da un collega di risolvere la nostra posizione in
Italia. Fu intrapresa una storia al Ministero - che io non capii
perfettamente - ma alla fine io tornai con il mio cognome e a te ti
fu assegnato un cognome di fantasia. Ma tu sei Giuseppe Benigno
figlio di Salvatore Benigno.”
Salvatore
di Ballarò.
Carlo
Mocera